Biennale 3: dov'è il teatro?

Teatro delle voci, d'opera, teatro di oggi?

Recensione
classica
L’edizione dello scorso anno della Biennale, la prima con la curatela di Ivan Fedele, metteva tra le altre cose a confronto massimalismi e minimalismi. Mi ritorna un po’ in mente questo tema mentre ascolto la performance di Pietro Luca Congedo, che ha creato un complesso sistema di percussioni in cui delle "protesi" controllate dall’artista stimolano forme e oggetti di diversi materiali, dall’alluminio al gres, poste su pedane attorno al pubblico. Il meccanismo non è proprio chiarissimo, anche per la presenza di un fumo scenografico che non aiuta la visione, tanto che la natura di alcune superfici percosse mi è stata chiara solo alla fine, quando sono andato vicino per vederle. Mi viene in mente il tema dei massimalismi, perché non c’è dubbio che lo sforzo ideativo e scientifico sia notevole, in un certo senso anche volutamente magniloquente. Non altrettanto notevole è l’esito musicale, che si muove più per sovrapposizioni non particolarmente memorabili di strati timbrici – coesi attraverso l’elettronica – che per architetture ritmiche, perdendo secondo me alcune intriganti opportunità. Tutto molto teatrale comunque , che è un po’ la parola chiave di questa puntata del mio diario.

Sotto una pioggerellina aguzza ci spostiamo infatti al Teatro Malibran per Aspern di Sciarrino, che fa incrociare il cartellone della Biennale con quello della stagione lirica della Fenice. Secondo lavoro teatrale del compositore siciliano (il debutto a Firenze nel 1978), musicalmente ancora oggi ricco di parti fascinose, con l’accostamento di un organico strumentale ristretto a una voce di soprano e a tre voci recitanti, l’opera pone – con la sua struttura dichiaratamente inattuale – alcune questioni di fondo. Che l’allestimento non risolve, anzi in parte complica. Affidato agli allievi (tutorati) dei corsi dell’Università di Architettura, consiste in una scena di quinte mobili – idea semplice e tutt’altro che nuova – che modellano lo spazio e fungono da sfondo per proiezioni o materiale vivo. Una scelta che accentua la scarsa tenuta drammaturgica del tutto, con lunghe parte recitate (in modo assai men che convenzionale) che attraversano il bel libretto che Giorgio Marini e lo stesso Sciarrino trassero dalla meravigliosa novella di Henry James. È un lavoro che sembra chiedere quasi di non essere messo in scena, perché i movimenti rischiano di essere inutili o ridondanti: la figura della cantatrice ad esempio (al debutto "confinata" su un palchetto), vaga qui senza trovare una collocazione credibile e sarebbe in realtà un elemento straniante straordinario, con il suo canto in cui citazioni dapontesche/mozartiane accendono sonorità sfrigolanti o in cui emerge la dolcezza delle canzoni da battello veneziane. E che dire dei pochi movimenti degli oggetti di scena, affidati a improbabili figuranti mascherati da ninja? Si pone qui vivido il tema dell’urgenza del teatro musicale contemporaneo (lo ritroveremo tra poco), anche perché il pubblico della stagione lirica – come le simpatiche signore nella fila dietro la mia, che brontolano e commentano a voce alta, bollando com’è tradizione la cosa come "non musica" – non ha abitudine a questi linguaggi e un pubblico nuovo, immerso in un mondo di "visione" e interattività assai più pervasiva se non esasperata, difficilmente troverà affascinante un impianto di questo tipo. Bravi comunque gli strumentisti, ben diretti da Marco Angius, e la cantante Zuzana Markovà.

Teatro in fondo, teatro delle voci, quello di David Moss, che entusiasma la platea della Sala delle Colonne con uno dei suoi abituali recital. Giusto così. Se anch’io stessi ascoltando/vedendo performare Moss per la prima volta, sarei molto eccitato: l’artista americano è un fuoriclasse nell’uso della voce, in grado di produrre timbri e effetti fuori dall’ordinario e di articolarli dentro una narrazione ricca di suggestioni e personaggi, come nel caso della storia "veneziana" che ci offre. Avendo però ascoltato diverse volte Moss, che fa più o meno sempre la stessa cosa in questa conformazione, trovo la sua performance leggermente lunga e un po’ meno magica (ma è eccellente, eh), cosa che mi permette di concentrarmi piuttosto sul lavoro elettronico che Francesco Canavese e Francesco Giomi di Tempo Reale elaborano con lui. Mi piace molto, sia quando riprendono i frammenti vocali del musicista americano e li montano in suggestioni fantasmatiche, sia quando, nella parte centrale, prendono in mano la materia stessa della performance e la piegano dentro spasmi di broken beats e di timbri che aprono verso mondi urbani apparentemente distanti da quelli veneziani.

Ancora teatro, la sera al Piccolo Arsenale, con due atti unici commissionati dalla Biennale a Vittorio Montalti e Raffaele Grimaldi. Ecco tornare il punto cui accennavamo prima. Che senso può avere oggi un lavoro di teatro musicale contemporaneo? Quali urgenze formali, espressive, dialogiche, culturali, potrebbero o dovrebbero emergere da questa forma? Quello cui ci troviamo di fronte sono due lavori che pur con un soggetto "buffo" (materia tra l’altro più complessa da maneggiare di quella drammatica) rimangono inattuali, chiusi in se stessi, ostici, poco comprensibili o musicalmente godibili/affascinanti, mai condivisivi e con più di qualche momento di cedimento della tensione drammaturgica pur nel breve lasso della loro durata. Dentro la sala potremmo essere benissimo dieci anni fa o anche più. Cosa ci parla del presente? L’apparato scenico, pur con la mano esperta di Giancarlo Cauteruccio e la presenza in entrambi i lavori di un performer sicuramente talentuoso come Jo Bullit, funziona pochissimo o meglio sembra non tenere minimamente conto di quelle che sono le caratteristiche dei linguaggi della nostra contemporaneità. Io credo che il teatro contemporaneo, così come la danza, si siano in questi anni (ma direi decenni) posti – con traiettorie e esiti molto differenti, certo – questo tipo di problemi (la ridefinizione del rapporto con lo spettatore, il superamento della "rappresentazione", la conversione delle conquiste lessicali delle avanguardie storiche in dinamiche di maggior pregnanza emozionale, solo per dirne qualcuna) e rimango piuttosto perplesso quando vedo che di tutto questo lavoro/pensiero (che pure la Biennale stessa testimonia in modo puntuale con i propri festival e che incoraggia con le meritorie attività formative e di college) continua a essere quasi assente quando parliamo di teatro musicale contemporaneo. Non se la prendano Montalti e Grimaldi, che in qualche modo metto per un istante da parte, ma voglio condividere con voi una serie di questioni che mi pare stiano a monte (se ne parla ad esempio anche qui focus E che riguardano secondo me la necessità per il teatro musicale contemporaneo di aprirsi davvero al mondo, alle necessità di un fare musica che porti il talento e le energie di compositori giovani verso nuove soluzioni vocali, timbriche, ritmiche, drammaturgiche in cui si può riprendere a dialogare davvero con le tensioni del presente. A partire dallo stesso uso dello spazio (la sala teatrale, le convenzioni di ascolto, tutte cose nate in altri contesti storico, sociali e culturali), di una maggior capacità di metabolizzare gli stimoli che vengono dai tanti ambiti della popular music, del ruolo della voce e di cosa uno "spettacolo" dal vivo può offrire a chi vi si accosta – che non siano sempre i soliti quattro addetti ai lavori però… – un’esperienza che porti la tradizione teatral-musicale dentro forme e suggestioni che altre forme di spettacolo non possono dare. Un po’ di coraggio e di follia in più potrebbe aiutare…

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