Avanti Sònar
Il racconto del festival di "musica avanzata" di Barcellona, fra ninja kitsch, nuove dive e poeti fantasmi
Recensione
oltre
Persino gli abusivi fuori dal MACBA vendono esclusivamente la birra main sponsor, la gassosissima e catalanissima Estrella Damm, che tengono al fresco nei tombini. Questa è la prima visione “off” del Sònar 2011, arrivando il venerdì pomeriggio al Museo di Arte Contemporanea di Barcellona. E, se le droghe ricreative fossero legali, sarebbero probabilmente anche quelle vincolate ad un brand autoctono, come esige il modello catalano di organizzazione di eventi. Il sistema, comunque, vince ancora una volta e permette ad un festival potenzialmente “problematico” (in fondo è una rassegna di musica elettronica da decine di migliaia di presenze, mica madrigalistica) di passare quasi inosservato in città, se si escludono le basse frequenze che risuonano nel barrio appena dietro Plaça de Catalunya, dove diverse decine di indignados irriducibili ascoltano il comizio di Hordur Torfason, noto (?) leader della “rivoluzione islandese”.
Ma seguire il Sònar esige una devozione alla causa quasi monastica, non è per tutti: il programma parte dall’ora di pranzo con il Sònar de Dìa. Si ferma per un’oretta alle 21 – giusto il tempo per spostari dal Museo al Mirador de Colom, da dove partono le navette per la Fira Gran Vìa di Hospitalet, sede del Sònar de Noche. I ritmi martellano anche sull’orario di programmazione: un’ora di media tanto per i concerti quanto per i dj set, fino a dilatarsi all’alba delle 6-7 del mattino, quando gli ultimi sopravvissuti comprano l’ultima Estrella Damm della giornata e tornano ciondolando in centro.
Impossibile, comprenderete, dar conto di tutto: proviamo a segnalare almeno qualche stream coerente in un programma che, fedele all’intestazione di “Festival of Advanced Music and Multimedia Art”, non si dedica solo all’elettronica.
Sudafrica kitsch
Uno spilungone tatuato con il microfono incorporato in un finto pene di dimensioni priapesche; una specie di fantasmino gonfabile di tre metri anch’esso con pene di dimensioni priapesche; una ragazzina bionda con voce da Barbie e pantaloni dorati; un dj mascherato; ballerini con maschere tribali e tute colorate alla Devo. Bastano questi motivi per assegnare al Sudafrica il premio kitsch per il Sònar 2011 – la musica però è interessante, e fra le più fresche ascoltate a Barcellona. Gli ultimi citati – i ballerini vestiti da etno-Devo (gli “Tshetsha Boys”) – sono la front line di Shangaan Electro, live set che presenta finalmente dal vivo la compilation omonima della Honest Jon di Damon Albarn, un irresistibile focus sulla scena di Soweto legata alla “digitalizzazione” della tradizione Tsonga Shangaan. Il risultato – che sul disco ha una irresistibile grana vintage – dal vivo si trasforma in una sfida al bpm più veloce («We have to reach oneee eight foooour» esclama dopo ogni pezzo il deus ex machina Nozinja). A 184 (inteso come battiti al minuto) ci si arriva, ma dal vivo l’operazione, nonostante la sua piacevole patina kitsch, perde un po’ di interesse, anche per la collocazione pomeridiana, nel cortile del MACBA.
L’apoteosi sudafricana è perciò lo show notturno dei Die Antwoord, collettivo di Cape Town composto dal rapper Ninja (l’uomo con il microfono incorporato in un finto pene di dimensioni priapesche), Yo Landi Vi$$er (la ragazzina) e DJ Hi-Tek (quello mascherato): hip hop ad alto tasso tecnico e pieno di hook melodici, che ben sintetizza il melting pot sudafricano (i testi sono in un incomprensibile inglese, in afrikaan e in xhosa) visto però dai ghetti bianchi, in un misto di satira sociale, boasting e ironia che ribalta i cliché del gangsta rap: i personaggi sono davvero portati all’estremo, oltre ogni credibilità. Imperdibili per gli amanti del trash.
Le dive
La sovraesposizione donatale da The Millionaire ha probabilmente fatto di Mathangi "M.I.A." Arulpragasam la prima popstar globale. Lei - ben radicata nella scena londinese quanto fiera nel mostrare le sue origini tamil – ha interpretato il ruolo con un’intransigenza politica e una vis polemica degna di un’artista underground, senza – come si suol dire – svendersi più di tanto. Insomma, nonostante abbia le carte in regola, M.I.A. non diventerà mai Lady Gaga. Lo dimostra anche tornando al Sònar, dove il suo set, nella notte di venerdì, è fra i più attesi. L’impatto è stordente: l’eterogeneità dei materiali musicali e visivi, tritati tutti insieme, confonde e delizia. Arte “pop” nel senso più alto del termine, che consolida il ruolo di M.I.A. come icona di un genere che in fondo ha inventato lei stessa. Finisce in festa, con le prime file portate – come si addice ad un’artista democratica - a ballare sul palco.
L’altra diva – e vista l’età, pronostichiamo potrebbe arrivare dove M.I.A. non vuole arrivare – è Janelle Monàe. Venticinquenne, autrice, cantante, ballerina, è già approdata con un album ambiziosissimo, The Archandroid, alla corte di Sean “Diddy” Combs. Ora la scopriamo dal vivo (sarà in tour per tutta l’estate nei maggiori festival, non in Italia): si presenta con una band di una quindicina di elementi, fra quartetto d’archi, sezione fiati, coriste e ballerine. Live il suo R&B suona più “tradizionale” che su disco, ma l’effetto è anche più irresistibile, grazie a una band a dir poco esuberante. Lei controlla tutto e tutti con sguardo navigato, stile controllatissimo e acconciatura stravagante. E per potersi permettere una cover dei Jackson Five e – soprattutto - un brano voce e chitarra davanti a migliaia di persone che vogliono ballare (e tutti zitti!), bisogna avere classe genuina: è davvero nata una stella.
Nuove musiche da ballo e dintorni
Fra i migliori campioni di musica da ballo “intelligente” (non che non ci piaccia quella “ignorante”, anzi: Steve Aoki, ad esempio, si inventa un set pazzesco) c’è Africa Hitech, moniker di Mark Pritchard e Steve Spacek, sotto etichetta Warp. Un misto che parte dalla techno e passando per il dub si colora di venature soulful, da ascoltare e ballare.
Così come Magnetic Man, il collettivo dubstep all-star (Benga, Skream e Artwork), che sta portando, grazie a featuring di livello, il dubstep in classifica. Il set, sabato sera, è un’antologia di quanto, in realtà, il linguaggio dubstep sia utilizzabile con intelligenza anche sul dancefloor, in una direzione meno “cerebrale” di quella presa da Burial, per intenderci.
Ultima menzione per la musica “tamarra” (non si riesce ancora a trovare una parola più efficace in italiano, con buona pace dei puristi): Buraka Som Sistema, portoghesi che hanno portato il kuduro angolano verso il dancefloor.
Canzoni e elettronica acustica
La sequenza più emozionante del Sònar 2011 si verifica il venerdì pomeriggio, sul palco del SònarHall, nei seminterrati del complesso museale. Comincia Hauschka, maestro tedesco del piano preparato: il suo strumento, un mezzacoda, è davvero una macchina “totale”, che fra corpi estranei e rielaborazioni digitali suona come un sintetizzatore acustico. La novità sta nel virare questa tavolozza timbrica verso il minimalismo house (grazie al percussionista Kai Angermann, che fornisce il beat 4/4 con una grancassa opportunamente filtrata), con un’umanizzazione del suono ripetitivo che sa toccare corde (e membrane) profonde.
Segue Ghostpoet, moniker dell’anglo-nigeriano Obaro Ejimiwe, fresco di debutto per l’etichetta del tastemaker londinese Gilles Peterson, e di cui sentiremo ancora parlare. La sua musica, malinconica, si colloca in quello strano terreno fra l’hip hop e la spoken poetry, non senza aperture melodiche del cantato (a tratti, con qualcosa dell’approccio al rock dei TV on The Radio). Il tutto costruito su pattern pseudo-hip hop montati in maniera creativa, una batteria, e una chitarra elettrica math rock. Il fantasma di Gil Scott Heron?
Ma seguire il Sònar esige una devozione alla causa quasi monastica, non è per tutti: il programma parte dall’ora di pranzo con il Sònar de Dìa. Si ferma per un’oretta alle 21 – giusto il tempo per spostari dal Museo al Mirador de Colom, da dove partono le navette per la Fira Gran Vìa di Hospitalet, sede del Sònar de Noche. I ritmi martellano anche sull’orario di programmazione: un’ora di media tanto per i concerti quanto per i dj set, fino a dilatarsi all’alba delle 6-7 del mattino, quando gli ultimi sopravvissuti comprano l’ultima Estrella Damm della giornata e tornano ciondolando in centro.
Impossibile, comprenderete, dar conto di tutto: proviamo a segnalare almeno qualche stream coerente in un programma che, fedele all’intestazione di “Festival of Advanced Music and Multimedia Art”, non si dedica solo all’elettronica.
Sudafrica kitsch
Uno spilungone tatuato con il microfono incorporato in un finto pene di dimensioni priapesche; una specie di fantasmino gonfabile di tre metri anch’esso con pene di dimensioni priapesche; una ragazzina bionda con voce da Barbie e pantaloni dorati; un dj mascherato; ballerini con maschere tribali e tute colorate alla Devo. Bastano questi motivi per assegnare al Sudafrica il premio kitsch per il Sònar 2011 – la musica però è interessante, e fra le più fresche ascoltate a Barcellona. Gli ultimi citati – i ballerini vestiti da etno-Devo (gli “Tshetsha Boys”) – sono la front line di Shangaan Electro, live set che presenta finalmente dal vivo la compilation omonima della Honest Jon di Damon Albarn, un irresistibile focus sulla scena di Soweto legata alla “digitalizzazione” della tradizione Tsonga Shangaan. Il risultato – che sul disco ha una irresistibile grana vintage – dal vivo si trasforma in una sfida al bpm più veloce («We have to reach oneee eight foooour» esclama dopo ogni pezzo il deus ex machina Nozinja). A 184 (inteso come battiti al minuto) ci si arriva, ma dal vivo l’operazione, nonostante la sua piacevole patina kitsch, perde un po’ di interesse, anche per la collocazione pomeridiana, nel cortile del MACBA.
L’apoteosi sudafricana è perciò lo show notturno dei Die Antwoord, collettivo di Cape Town composto dal rapper Ninja (l’uomo con il microfono incorporato in un finto pene di dimensioni priapesche), Yo Landi Vi$$er (la ragazzina) e DJ Hi-Tek (quello mascherato): hip hop ad alto tasso tecnico e pieno di hook melodici, che ben sintetizza il melting pot sudafricano (i testi sono in un incomprensibile inglese, in afrikaan e in xhosa) visto però dai ghetti bianchi, in un misto di satira sociale, boasting e ironia che ribalta i cliché del gangsta rap: i personaggi sono davvero portati all’estremo, oltre ogni credibilità. Imperdibili per gli amanti del trash.
Le dive
La sovraesposizione donatale da The Millionaire ha probabilmente fatto di Mathangi "M.I.A." Arulpragasam la prima popstar globale. Lei - ben radicata nella scena londinese quanto fiera nel mostrare le sue origini tamil – ha interpretato il ruolo con un’intransigenza politica e una vis polemica degna di un’artista underground, senza – come si suol dire – svendersi più di tanto. Insomma, nonostante abbia le carte in regola, M.I.A. non diventerà mai Lady Gaga. Lo dimostra anche tornando al Sònar, dove il suo set, nella notte di venerdì, è fra i più attesi. L’impatto è stordente: l’eterogeneità dei materiali musicali e visivi, tritati tutti insieme, confonde e delizia. Arte “pop” nel senso più alto del termine, che consolida il ruolo di M.I.A. come icona di un genere che in fondo ha inventato lei stessa. Finisce in festa, con le prime file portate – come si addice ad un’artista democratica - a ballare sul palco.
L’altra diva – e vista l’età, pronostichiamo potrebbe arrivare dove M.I.A. non vuole arrivare – è Janelle Monàe. Venticinquenne, autrice, cantante, ballerina, è già approdata con un album ambiziosissimo, The Archandroid, alla corte di Sean “Diddy” Combs. Ora la scopriamo dal vivo (sarà in tour per tutta l’estate nei maggiori festival, non in Italia): si presenta con una band di una quindicina di elementi, fra quartetto d’archi, sezione fiati, coriste e ballerine. Live il suo R&B suona più “tradizionale” che su disco, ma l’effetto è anche più irresistibile, grazie a una band a dir poco esuberante. Lei controlla tutto e tutti con sguardo navigato, stile controllatissimo e acconciatura stravagante. E per potersi permettere una cover dei Jackson Five e – soprattutto - un brano voce e chitarra davanti a migliaia di persone che vogliono ballare (e tutti zitti!), bisogna avere classe genuina: è davvero nata una stella.
Nuove musiche da ballo e dintorni
Fra i migliori campioni di musica da ballo “intelligente” (non che non ci piaccia quella “ignorante”, anzi: Steve Aoki, ad esempio, si inventa un set pazzesco) c’è Africa Hitech, moniker di Mark Pritchard e Steve Spacek, sotto etichetta Warp. Un misto che parte dalla techno e passando per il dub si colora di venature soulful, da ascoltare e ballare.
Così come Magnetic Man, il collettivo dubstep all-star (Benga, Skream e Artwork), che sta portando, grazie a featuring di livello, il dubstep in classifica. Il set, sabato sera, è un’antologia di quanto, in realtà, il linguaggio dubstep sia utilizzabile con intelligenza anche sul dancefloor, in una direzione meno “cerebrale” di quella presa da Burial, per intenderci.
Ultima menzione per la musica “tamarra” (non si riesce ancora a trovare una parola più efficace in italiano, con buona pace dei puristi): Buraka Som Sistema, portoghesi che hanno portato il kuduro angolano verso il dancefloor.
Canzoni e elettronica acustica
La sequenza più emozionante del Sònar 2011 si verifica il venerdì pomeriggio, sul palco del SònarHall, nei seminterrati del complesso museale. Comincia Hauschka, maestro tedesco del piano preparato: il suo strumento, un mezzacoda, è davvero una macchina “totale”, che fra corpi estranei e rielaborazioni digitali suona come un sintetizzatore acustico. La novità sta nel virare questa tavolozza timbrica verso il minimalismo house (grazie al percussionista Kai Angermann, che fornisce il beat 4/4 con una grancassa opportunamente filtrata), con un’umanizzazione del suono ripetitivo che sa toccare corde (e membrane) profonde.
Segue Ghostpoet, moniker dell’anglo-nigeriano Obaro Ejimiwe, fresco di debutto per l’etichetta del tastemaker londinese Gilles Peterson, e di cui sentiremo ancora parlare. La sua musica, malinconica, si colloca in quello strano terreno fra l’hip hop e la spoken poetry, non senza aperture melodiche del cantato (a tratti, con qualcosa dell’approccio al rock dei TV on The Radio). Il tutto costruito su pattern pseudo-hip hop montati in maniera creativa, una batteria, e una chitarra elettrica math rock. Il fantasma di Gil Scott Heron?
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