Interattivi o interpassivi?
Performance deludente al Politecnico di Milano
Recensione
oltre
A essere onesti, se non avessi saputo che di questa iniziativa avrei scritto una riflessione per il blog, l’avrei già archiviata nel dimenticatoio. Non è un bel segno, e anzi me ne dispiaccio, considerato l’entusiasmo sincero con cui ero partito. Ma credo che, come me, una buona parte del pubblico presente alla prima serata di Play your phone! abbia raccolto un’impressione di sostanziale indifferenza. Questo almeno era scritto nelle espressioni perplesse, incredule o annoiate dei pochi rimasti fino alla fine, del tutto diverse rispetto a quelle che avevano dato vita a un’atmosfera frizzante a inizio serata: un pubblico numericamente dignitoso (un centinaio di persone a occhio e croce, non male per Milano) e giovane, per non dire giovanissimo – con tanto di bimbo a gattoni e adolescenti.
La «performance-concerto interattiva per esecutori e pubblico», così intitolava il programma, si svolge in un’aula del Politecnico di Milano che sembra fatta apposta: ampia, rivestita di materiali dotati di un’ottima acustica per il tipo di evento. Il pubblico si siede a terra dove vuole, circondato da altoparlanti, un pianoforte su una pedana in mezzo alla sala, quattro schermi ai due lati corti e, soprattutto, uno stuolo di laptops (computer portatili) rigorosamente Apple da fare impallidire Bill Gates.
Il programma è invitante, almeno per me che sono affascinato dal mondo informatico ed elettronico: si parla di composizioni che sfruttano segnali captati da sensori della temperatura e dell’umidità della sala, elaborandoli acusticamente e visivamente in tempo reale; si parla di performance virtuali che coinvolgono utenti web dalla California, di elaborazione sonora di tweets (i messaggi lanciati tramite smartphone o computer usando il social network Twitter). Subito mi coglie il rammarico di non avere portato, come invece altri meglio informati hanno fatto, il mio computer; poi però penso che i canali della mia informazione, cioè il sito e il programma di MiTo, non accennano a questa possibilità. Il dubbio che la comunicazione relativa a questa iniziativa non sia strutturata al meglio mi si chiarisce nel momento in cui la performance non segue l’iter indicato dal programma. Il dato non è indifferente, poiché proprio in casi del genere il programma è lo strumento imprescindibile per capire cosa sta accadendo e dunque per meglio apprezzarlo. Ma qui la responsabilità non sembra essere di MiTo quanto degli artisti stessi, che d’altra parte non brillano in qualità comunicative – dopo il doveroso preambolo di Robert Hamilton, compositore leader dell’iniziativa – nessuno proferisce più verbo e tutto accade, senza che il pubblico venga informato su cosa deve fare, ma soprattutto senza che si notino risultati interessanti una volta fatto quel poco richiesto: risultato? altro che interattività, semmai interpassività. Alla luce di come sono andate le cose, dunque, la frase di Hamilton «ciò che ci interessa è riunire persone in questa sala e da tutte le parti del mondo» è forse ciò che mi ha disturbato di più: e che farsene di tutte queste persone riunite? verrebbe da obiettare... .
Interattività, comunicazione: qualche mese fa presi parte a una conferenza in una prestigiosa università di New York, in cui, tra le altre cose, si affrontava il problema dell’interattività; confesso una certa delusione nell’aver constatato che tale termine veniva adoperato esclusivamente in relazione ai giochi elettronici, riguardo ai quali è abbastanza intuitivo capire che non si dà interattività, semmai si dà un’attività guidata in cui l’utente accetta l’illusione di essere libero pur sapendo benissimo di non potere andare oltre un numero finito, per quanto alto, di scelte, il cui effetto è già stato previsto e determinato da qualcun altro. Abbiamo alle spalle quasi cinquant’anni di sperimentazioni artistiche e mediatiche sull’interattività, sull’immersione sonora, sulla performance istantanea, esperienze anche provocatorie che hanno cercato di affrontare (non sempre riuscendoci, spesso generando rifiuti violenti o adesione fanatica) i nodi nevralgici della socialità e, più in piccolo, della comunicazione artistica. Quindi capiamoci: o “interattività” oggi è sinonimo di “giochino”, allora che lo si dica chiaramente senza mascherarsi dietro la parvenza di performance sperimentali; oppure, se vuol dire qualcosa d’altro, verso cui si possono aprire nuove prospettive rispetto ai decenni che ci precedono, che si investa in progetti artistici consistenti e coraggiosi, non solo su risorse tecnologiche avveniristiche. Ebbene, ieri purtroppo la soluzione del dilemma pendeva verso la prima direzione. Un solo esempio: il pubblico era invitato a mandare messaggi di testo tramite Twitter; ad alcune parole chiave all’interno del testo, se non ho capito male, erano associati algoritmi in grado di generare piccole sequenze di note. Risultato? Uno sciame di notine simile a quelle di un sintetizzatore monofonico pestato a caso. Ora, mi chiedo: se il pubblico non sa come calibrare l’effetto delle sue azioni (i messaggi) in che modo può divertirsi, in che modo può comunicare con codici che non conosce? Ma soprattutto, in che modo tali notine possono produrre un’esperienza estetica degna di nota? L’impressione è che in realtà tutto fosse puntato sulla capacità della tecnologia di stupire di per sé; cosa puntualmente non avvenuta: un conto sono gli avventori di un padiglione dimostrativo, o di un Apple Store, un conto è un pubblico che ti giudica e si attende qualcosa.
Il programma è invitante, almeno per me che sono affascinato dal mondo informatico ed elettronico: si parla di composizioni che sfruttano segnali captati da sensori della temperatura e dell’umidità della sala, elaborandoli acusticamente e visivamente in tempo reale; si parla di performance virtuali che coinvolgono utenti web dalla California, di elaborazione sonora di tweets (i messaggi lanciati tramite smartphone o computer usando il social network Twitter). Subito mi coglie il rammarico di non avere portato, come invece altri meglio informati hanno fatto, il mio computer; poi però penso che i canali della mia informazione, cioè il sito e il programma di MiTo, non accennano a questa possibilità. Il dubbio che la comunicazione relativa a questa iniziativa non sia strutturata al meglio mi si chiarisce nel momento in cui la performance non segue l’iter indicato dal programma. Il dato non è indifferente, poiché proprio in casi del genere il programma è lo strumento imprescindibile per capire cosa sta accadendo e dunque per meglio apprezzarlo. Ma qui la responsabilità non sembra essere di MiTo quanto degli artisti stessi, che d’altra parte non brillano in qualità comunicative – dopo il doveroso preambolo di Robert Hamilton, compositore leader dell’iniziativa – nessuno proferisce più verbo e tutto accade, senza che il pubblico venga informato su cosa deve fare, ma soprattutto senza che si notino risultati interessanti una volta fatto quel poco richiesto: risultato? altro che interattività, semmai interpassività. Alla luce di come sono andate le cose, dunque, la frase di Hamilton «ciò che ci interessa è riunire persone in questa sala e da tutte le parti del mondo» è forse ciò che mi ha disturbato di più: e che farsene di tutte queste persone riunite? verrebbe da obiettare... .
Interattività, comunicazione: qualche mese fa presi parte a una conferenza in una prestigiosa università di New York, in cui, tra le altre cose, si affrontava il problema dell’interattività; confesso una certa delusione nell’aver constatato che tale termine veniva adoperato esclusivamente in relazione ai giochi elettronici, riguardo ai quali è abbastanza intuitivo capire che non si dà interattività, semmai si dà un’attività guidata in cui l’utente accetta l’illusione di essere libero pur sapendo benissimo di non potere andare oltre un numero finito, per quanto alto, di scelte, il cui effetto è già stato previsto e determinato da qualcun altro. Abbiamo alle spalle quasi cinquant’anni di sperimentazioni artistiche e mediatiche sull’interattività, sull’immersione sonora, sulla performance istantanea, esperienze anche provocatorie che hanno cercato di affrontare (non sempre riuscendoci, spesso generando rifiuti violenti o adesione fanatica) i nodi nevralgici della socialità e, più in piccolo, della comunicazione artistica. Quindi capiamoci: o “interattività” oggi è sinonimo di “giochino”, allora che lo si dica chiaramente senza mascherarsi dietro la parvenza di performance sperimentali; oppure, se vuol dire qualcosa d’altro, verso cui si possono aprire nuove prospettive rispetto ai decenni che ci precedono, che si investa in progetti artistici consistenti e coraggiosi, non solo su risorse tecnologiche avveniristiche. Ebbene, ieri purtroppo la soluzione del dilemma pendeva verso la prima direzione. Un solo esempio: il pubblico era invitato a mandare messaggi di testo tramite Twitter; ad alcune parole chiave all’interno del testo, se non ho capito male, erano associati algoritmi in grado di generare piccole sequenze di note. Risultato? Uno sciame di notine simile a quelle di un sintetizzatore monofonico pestato a caso. Ora, mi chiedo: se il pubblico non sa come calibrare l’effetto delle sue azioni (i messaggi) in che modo può divertirsi, in che modo può comunicare con codici che non conosce? Ma soprattutto, in che modo tali notine possono produrre un’esperienza estetica degna di nota? L’impressione è che in realtà tutto fosse puntato sulla capacità della tecnologia di stupire di per sé; cosa puntualmente non avvenuta: un conto sono gli avventori di un padiglione dimostrativo, o di un Apple Store, un conto è un pubblico che ti giudica e si attende qualcosa.
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