L’Estro di Vivaldi e l’armonia di Alessandrini

All’Accademia di Santa Cecilia una magnifica esecuzione dei dodici concerti dell’op. 3 del Prete rosso

Rinaldo Alessandrini e il Concerto Italiano (Foto Accademia di Santa Cecilia/Musa)
Rinaldo Alessandrini e il Concerto Italiano (Foto Accademia di Santa Cecilia/Musa)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Sinopoli
L’Estro armonico
03 Aprile 2024

Vivaldi non ha scritto quattrocento concerti ma “quattrocento volte lo stesso concerto”: non sarebbe il caso di ricordare ancora questa ormai stantia boutade di Stravinsky (ma secondo alcuni il copyright sarebbe di Dallapiccola) se non fosse che si è appena avuta l’ennesima e questa volta clamorosa dimostrazione del contrario, cioè che Vivaldi ha scritto quattrocento concerti (oltretutto il loro numero nel frattempo è aumentato) molto diversi l’uno dall’altro, pur all’interno di alcune costanti stilistiche, per altro molto originali. Ormai non ci sarebbe più alcun bisogno di dimostrarlo, ma è stato comunque entusiasmante questo concerto dalla durata monstre di due ore e mezza, compresi bis e intervallo, che ha permesso di ascoltare tutti e dodici i concerti dell’Estro Armonico op. 3: non è certamente una scoperta ma ascoltarli dal vivo l’uno dopo l’altro è un’esperienza rara ed estremamente interessante. Ne siamo debitori a Rinaldo Alessandrini, che da vari anni non suonava nella sua Roma insieme a Concerto italiano. Segnaliamo che si può ascoltare questa sua integrale anche in disco, con annessa l’elaborazione che Bach fece di quattro di questi concerti vivaldiani, che propone un interessante raffronto tra l’italiano e il tedesco e conferma – se ce ne fosse ancora bisogno -  l’interesse che questa raccolta suscitò in tutta l’Europa.

Certamente l’Estro Armonico è un caso particolare anche rispetto alle altre raccolte vivaldiane, perché non sono tutti concerti per violino solista, bensì quattro per quattro violini, quattro per due violini e quattro per un violino, a cui in alcuni casi si aggiunge un violoncello solista. E non sono tutti nei tipici tre movimenti, ma ce ne sono anche in quattro e in cinque movimenti, perché Vivaldi era ancora piuttosto giovane ed era in una fase di sperimentazione. L’originalità di questi concerti tuttavia sta non tanto in questi aspetti formali piuttosto insoliti quanto nell’invenzione e nell’estro (appunto) di ogni movimento, però senza stravaganze (per rifarci ad un altro titolo vivaldiano) perché tutto è all’interno d’un pensiero musicale ben saldo, che percorre dritto la sua strada senza tante divagazioni. Ogni movimento parte da un’idea ritmica irrefrenabile e travolgente (specialmente negli allegri) o da un’idea melodica semplice e seducente (soprattutto nei movimenti lenti) e la ripresenta, l’elabora, la sviluppa, sempre tenendo ben viva e tesa l’attenzione dell’ascoltatore. E ci sono anche momenti in cui affiorano armonie audaci e contrappunti magistrali, che solitamente non sono considerati attributi tipicamente vivaldiani.  Man mano che si ascoltavano i dodici concerti non si aveva affatto un senso di ripetitività e di saturazione ma al contrario aumentava l’interesse e il piacere dell’ascolto. In parte non indifferente questo era merito anche dell’esecuzione.

Rinaldo Alessandrini, rispettando le indicazioni della prima edizione a stampa, quella del 1711, ha scelto un organico di quattro violini, che eseguivano sia le parti solistiche sia il ripieno, più due viole e un basso continuo piuttosto corposo con violoncello (che talvolta si sganciava dal basso e aveva una parte autonoma), contrabbasso, arciliuto e clavicembalo, a cui sedeva Alessandrini stesso. A chi è abituato ad organici più consistenti, il suono poteva inizialmente sembrare un po’ esile, soprattutto in una sala da milleduecento posti, ma presto ci si rendeva conto che era proprio l’organico giusto – non per nulla l’aveva scelto Vivaldi stesso - per far emergere in una luce limpida e chiara tutti i dettagli di questa musica. A ciò contribuivano anche i tempi molto equilibrati e i ritmi non troppo marcati. A questa concezione rispondeva perfettamente Concerto Italiano, che ormai, nonostante negli anni siano cambiati molti elementi, è in simbiosi totale col suo fondatore e direttore: meritano la citazione almeno i quattro violinisti, ovvero Stefano Barneschi, Boris Begelman, Elisa Citterio e Nicholas Robinson. Riassumendo: un’esecuzione raffinata, razionale, equilibrata, che non aveva l’effetto elettrizzante ma superficiale ed effimero del ‘barock’ a base di tempi sfrenati e scapigliati, ma entrava molto più a fondo nella musica di Vivaldi.

Il pubblico che gremiva la Sala Sinopoli non era sazio nemmeno dopo dodici concerti e ha preteso un bis (naturalmente Vivaldi, il terzo movimento del Concerto “Alla rustica”). E ne avrebbe voluti altri ancora, se i musicisti non fossero stati comprensibilmente esausti.

 

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