La fugace apparizione italiana di Renée Fleming
Un approccio belcantistico ai Quatto ultimi Lieder: fascino timbrico e morbidezza d'emissione
Recensione
classica
Senza nulla voler togliere all'importanza dei brani in programma, l'interesse di questo concerto si accentrava tutto sulla presenza della diva Renée Fleming, colta nella sua unica apparizione stagionale in Italia, al punto da richiamare in città i soliti melomani "di giro", accorsi per una ventina di minuti scarsi di belcanto. Sì, proprio di belcanto, ché se anche dei postbellici "Quattro ultimi Lieder" straussiani si trattava, la purezza vocale ch'essi richiedono rimanda direttamente a quanto di più metafisicamente belcantistico la storia della vocalità abbia mai conosciuto. E Renée Fleming belcantista lo è a tutto tondo, col tanto Händel e Mozart, Rossini Bellini e Donizetti che si trova alle spalle. Scaldatasi la voce col primo Lied, la grande artista statunitense ha dispiegato nei brani successivi tutto il suo fascino timbrico, gareggiando in morbidezza con gli assoli del primo violino. L'accompagnava devotamente Daniele Gatti, con un gesto molto elegante, da cui traeva tutte le nuances ritmiche richieste dalla partitura, staccando tempi anche molto lenti (nel terzo Lied) per far distendere il canto con tutto l'agio necessario, ed eccedendo soltanto nei rapporti sonori con la voce, che più volte restava coperta dall'orchestra (colpa forse della resa acustica del nuovo auditorium, non ancor ben valutata?). Buon successo di pubblico, comunque, con numerose e insistite chiamate.
La serata si era aperta con un preludio dei "Maestri cantori" nato sotto maligna stella, dove i sottili intrecci contrappuntistici wagneriani venivano offuscati da impasti timbrici nebulosi e piani sonori schiacciati uno contro l'altro, anziché distinti spazialmente. Una prova sbagliata può sempre capitare, e non vale infierirvi.
Più interessante la seconda parte del concerto, dedicata alla Settima Sinfonia di Bruckner. Gatti ha il pregio di voler proporre nuove letture e personali, senza necessariamente indirizzarsi nel solco della tradizione esecutiva. Stacca ad esempio l'Adagio (quello reso celebre da Visconti in "Senso") con un metronomo lentissimo, tanto da farlo durare sei-sette minuti più di un Furtwaengler, ma non sostiene poi il tempo fino in fondo, adottando scansioni da Andante nelle sezioni in cui gli archi sorgono in primo piano (anche Harnoncourt fa qualcosa di simile: un interprete, appunto, estraneo anch'egli alla grande tradizione direttoriale tardoromantica). Tutto questo (ma gli esempi potrebbero anche essere altri) pare derivare da una concezione interpretativa che rifiuta rapporti strutturali ad ampie arcate, preferendo ragionare per piccole campate; così nel grande crescendo conclusivo, il controverso colpo di piatti a sottolinearne il culmine, che Gatti decide di mantenere, non suona più come il punto d'arrivo di una climax che parte da lontano, ma sembra trarre la sua energia dalle sole battute che immediatamente precedono l'esplosione. Più coeso lo Scherzo successivo, meno problematico sul piano interpretativo, mentre nel Finale si sono moltiplicate le sbavature degli ottoni, guastando una prova per altro egregia dell'orchestra, in una partitura tutt'altro che semplice.
Note: Richard Wagner, I maestri cantori di Norimberga (Preludio); Richard Strauss, Quattro ultimi Lieder; Anton Bruckner, Sinfonia n. 7 in mi maggiore
Interpreti: Renée Fleming
Orchestra: Orchestra del Teatro Comunale
Direttore: Daniele Gatti
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