Il ritorno di Jenufa a Roma dopo quasi mezzo secolo

La direzione di Valcuha, la regia di Guth, i cantanti ottimi e perfettamente affiatati hanno reso indimenticabile quest’edizione del capolavoro di Janacek

Jenufa (Foto Fabrizio Sansoni)
Jenufa (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Jenufa
02 Maggio 2024 - 09 Maggio 2024

Fino a tre anni fa Jenufa  era l’unica opera di Leoš Janáček ad essere stata rappresentata al Teatro dell’Opera, ma ora il progetto di portare sul palcoscenico romano tre opere del compositore moravo nell’arco di tre anni ha colmato almeno parzialmente questa lacuna nella conoscenza di uno dei più grandi musicisti del Novecento. E speriamo che non ci si fermi qui.

Per questo breve ma prezioso ciclo l’Opera ha puntato su alcuni dei più interessanti registi di questi anni: l’inglese Richard Jones per Katia Kabanova ,  il polacco Krzysztof Warlikowski per Da una casa di morti  e ora  il tedesco Claus Guth per Jenufa.

Non capita spesso di vedere uno spettacolo come questo, capace di coniugare un impianto visivo assolutamente moderno e il rispetto assoluto della lettera e dello spirito di un’opera. Al sovraccarico di idee discutibili e di stimoli contraddittori con cui tante regie dei nostri giorni sconcertano lo spettatore e nascondono le intenzioni degli autori sotto interpretazioni spesso gratuite e confuse, Guth contrappone uno spettacolo che si basa su un attento approfondimento della musica e del libretto, entrambi opera di Janacek. In special modo si concentra sulla psiche dei protagonisti, causa ed allo stesso tempo effetto di questa tragedia. Tra parentesi, questo evidenzia come fosse sbagliato considerare Jenufa  un’opera verista, quasi una Cavalleria rusticana  in salsa slava, come si è fatto per decenni: Janacek cerca infatti la verità nella psiche umana, non nella cornice realistica della vicenda.

Sobria ma potentemente drammatica, la regia di Guth mantiene dall’inizio alla fine una forte coerenza stilistica, sottolineata dalla scena unica, costituita da quattro alte pareti fatte di assi di legno: sì. sono proprio quattro, non tre, perché ad ogni apertura di sipario anche la quarta parete - quella solitamente invisibile rivolta verso il pubblico - è chiusa da questa barriera lignea. Poi la quarta parete si alza e l’azione si svolge in una scatola priva di porte e finestre: non ci sono infatti vie di uscita per i protagonisti di questa tragedia greca trasportata in un villaggio moravo della dine dell’Ottocento. Questo spazio chiuso resta pressoché vuoto: soltanto due file di letti e di sedie lungo le pareti, per gli uomini e le donne del villaggio nel primo atto; una gabbia di ferro, che è la casetta di Jenufa, nel secondo; un lungo tavolo per il pranzo di nozze nel terzo. I costumi sono severi abiti ottocenteschi, scuri con qualche tocco di bianco, tranne i ricami colorati degli abiti tradizionali delle donne nella scena del matrimonio. Il palcoscenico è sempre immerso in una luce fioca e solo a tratti uno sprazzo più vivido illumina particolari situazioni. Scene, costumi e luci – firmate rispettivamente da Michael Levine, Gesine Völlm e James Farncombe – sono essenziali, nella duplice accezione del termine.

In questi luoghi vuoti e indefiniti, quasi astratti, si svolge la vicenda di Jenufa, che lotta contro quel mondo moraliste e gretto, a cui però ella stessa appartiene. E qui entra in campo la magnifica direzione dei cantanti da parte di Guth, che scava nell’animo di ogni singolo personaggio - particolarmente di quelli più complessi e intricati: Jenufa, Kostelnicka e Laca - e ne porta alla luce il viluppo di speranze e disillusioni, forza e debolezza, durezza e delicatezza. Il realismo si mescola al simbolismo: da citare il nero uomo-corvo, presagio di sventura, appollaiato sul tetto della casetta di Jenufa allorché viene decisa la crudele sorte del bambino da lei concepito con il fatuo Steva.

Gli interpreti sono straordinari sia come attori che come cantanti. Cornelia Beskow, con la sua voce flessibilissima e capace d’infinite sfumature, è una Jenufa volitiva e vulnerabile, forte e dolce, indimenticabile. Superba l’interpretazione di Karita Mattila, che di Kostelnicka, la matrigna di Jenufa, fa un personaggio di statura tragica, che condensa in sé le regole feroci di un mondo retto da regole e superstizioni ataviche ed ineludibili. Con la sua duttilità vocale e la sua esperienza d’interprete dei ruoli più vari, Charles Workman offre un ritratto perfetto in ogni dettaglio del debole e tormentato Laca. Altrettanto apprezzabile è l’altro tenore, Robert Watson, nella parte del vanesio e superficiale Steva. Manuela Custer fa della vecchia Buryjovka un grande personaggio, nonostante la brevità della sua parte. Anche i molti personaggi minori sono perfettamente realizzati e questa compattezza della squadra è una delle carte vincenti di questo spettacolo. Una citazione speciale va al coro e al suo maestro Ciro Visco, che ormai ci hanno abituati ad un livello ottimale.

Determinante per fondere tutti questi elementi in un’interpretazione unitaria e fortemente drammatica, che cattura ed emoziona ogni ascoltatore, è la direzione di Juraj Valcuha, che sottolinea la modernità dell’orchestra di quest’opera scritta a cavallo tra Ottocento e Novecento, trasformando il turgore ottocentesco in asciutta ed inesorabile tensione, con sonorità spesso aspre e implacabile come la vicenda che viene narrata, alternate a squarci dolcissimi ma senza sentimentalismo. L’orchestra del Teatro dell’Opera risponde in modo ideale alla sua bacchetta.

Alla prima la sala era gremita, seppure non esaurita, mentre alla seconda recita le poltrone vuote erano piuttosto numerose. Ma entrambe le volte gli applausi sono stati unanimi ed entusiastici. Si spera che il passa-parola possa portare alle restanti recite tutto il pubblico che merita questo spettacolo veramente perfetto.

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