Il primo e l’ultimo Beethoven con Argerich e Shani
A Santa Cecilia il secondo Concerto per pianoforte e la nona Sinfonia nell’interpretazione della grande pianista e del brillante giovane direttore
Lahav Shani è un giovane (trentacinque anni non sono molti per un direttore d’orchestra) sulla cresta dell’onda. Dopo che il suo concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia era saltato nel 2020 a causa del covid, la sua agenda fitta di impegni lo ha costretto a rinviare di quattro anni il debutto a Roma e nel frattempo è diventato direttore musicale dell’Orchestra Filarmonica d’Israele come successore di Mehta ed è stato nominato prossimo direttore musicale dei Münchner Philharmoniker.
Accanto a lui era una grande, straordinaria pianista, amatissima dal pubblico di Roma e di tutto il mondo, Martha Argerich, che ha riproposto il Concerto n. 2 op. 19 di Beethoven, da lei suonato a Santa Cecilia già nel 1985, quasi quarant’anni fa, e poi nel 2002 con Claudio Abbado sul podio. È significativo che una pianista di questo livello, con una tecnica e un suono ancora meravigliosi nonostante l’età, abbia come uno dei suoi cavalli di battaglia questo concerto, che i giovani virtuosi della tastiera snobbano perché è relativamente facile e rende inutile la loro sbalorditiva tecnica. Questa grande interprete sa restituire pienamente tutti i pregi di un concerto - il secondo come numerazione ma in il primo in ordine di tempo - scritto da Beethoven a venticinque anni, ma iniziato quando ne aveva meno di venti. Per questo è spesso sottovalutato in quanto poco ‘beethoveniano’, ma Beethoven già allora era un genio, anche se solamente qualche anno dopo avrebbe conquistato uno stile propriamente suo e inconfondibile.
L’interpretazione della Argerich, in pieno accordo con Shani, ha evidenziato come il giovane Beethoven ancora settecentesco fosse già un grande compositore ma anche come a tratti si possa intravedere il Beethoven futuro. L’introduzione orchestrale dell’Allegro con brio rimandava a Mozart - i cui ultimi concerti per pianoforte risalivano ad appena pochi anni prima - e anche più indietro, con quelle frasi corte degli archi, incurvate come un ricciolo rococò, intervallate dagli interventi delicati dei fiati, mentre era attenuata l’energia degli accordi ‘forte’ a piena orchestra, a cui molti direttori cercano di dare precocemente un’eloquenza e una forza che saranno del Beethoven maturo. Il tema con cui la Argerich ha fatto il suo ingresso in scena aveva una leggerezza quasi scarlattiana e uno splendido colore d’oro antico. Le prime ombre e i primi contrasti, che si affacciano nel corso del movimento, erano resi come nuvole passeggere, non tempestose. Anche nell’Adagio l’influsso di Mozart era sensibile, ma la Argerich dava alla bellissima melodia un tono già beethoveniano, meno incantato e astratto e più lirico ed espressivo. Nell’ultimo movimento - composto alcuni anni dopo per sostituire il finale originario - spuntavano accenti, colori e irrequietezze nuove, come se a Beethoven andassero ormai strette la vivacità e la brillantezza tipica dei vecchi rondò. Impossibile narrare lo splendore di ogni battuta e di ogni singola nota della Argerich, a cui Il pubblico, che esauriva la sala, ha decretato un successo clamoroso come raramente se ne sentono, forse perché ora ai vecchi habitués si mescolano tanti giovani entusiasti. Pianista e direttore hanno simpaticamente formato un estemporaneo duo a quattro mani per suonare come bis Le jardin féerique, ultimo movimento di Ma mère l’Oye di Ravel.
Poi si è passati dal primo all’ultimo dei non così numerosi cimenti di Beethoven con l’orchestra sinfonica, la Sinfonia n. 9. Paradossalmente c’è meno da dire sull’interpretazione di questo grande e complesso capolavoro da parte di Shani che di quella che del relativamente breve e semplice concerto ha offerto la Argerich. Per Shani la forza e la novità della Nona risiedono soprattutto nella sua travolgente energia. Il primo movimento (Allegro ma non troppo) è diventato un Allegro assai, con l’intera orchestra lanciata ad una forza e ad una velocità travolgenti, mentre l’indicazione “un poco maestoso” diventava un’esibizione di potenza puramente sonora. Anche nei momenti più sereni e pacati, allorché il tutti orchestrale si acqueta e lascia emergere i fiati, si continuava a sentire che quell’energia premeva, pronta a riesplodere al più presto. Gli altri movimenti erano improntati a simili velocità e dinamismo, quale meno (ovviamente pensiamo soprattutto all’Adagio) e quale più (l’ode alla gioia finale).
La gioia cantata da Schiller nella sua ode è spirituale e allo stesso tempo dionisiaca e investe in egual misura l’anima e il corpo: Shani le ha impresso un furore bacchico, un’esaltazione irrefrenabile, grazie alla velocità dei tempi e all’impatto sonoro di ottanta coristi e di un’orchestra di dimensioni bruckneriane (all’epoca di Beethoven gli esecutori saranno stati a stento la metà). Già prima il direttore non aveva troppo curato gli equilibri interni dell’orchestra e la precisione degli attacchi, ma erano cose minime, appena avvertibili, mentre nel finale si è sentita la mancanza di una concertazione più attenta, che avrebbe potuto ovviare agli squilibri tra le quattro voci soliste, tutte di buona qualità ma molto diverse tra loro (erano Chen Reiss, Okka von der Damerau, Siyabonga Maqungo e Giorgi Manoshvili).
Indubbiamente la Nona approda alla gioia dopo un lungo percorso, più meditato, contrastato e difficile di come l’abbia fatto apparire Shani, tuttavia la sua è stata un’interpretazione travolgente, che afferrava l’ascoltatore anima e corpo e non lo mollava per un istante fino all’ultima nota. Il pubblico, che colmava la sala, ha reagito prima applaudendo fragorosamente, poi battendo ritmicamente le mani e infine alzandosi in piedi: un entusiasmo meritato dal direttore così come dal coro e dall’orchestra.
PS Chi abbia seguito Shani attraverso le registrazioni disponibili on line sa che la forza trascinante è la principale caratteristica delle sue interpretazioni. È interessante notare che la sua registrazione della Nona datata 2022 è più pacata e meditata di quella ascoltata a Roma: forse i tragici eventi di questi ultimi mesi lo hanno spinto a reagire gettandosi anima e corpo nell’utopia della gioia esaltata da Beethoven, che egli stesso tuttavia non aveva mai conosciuta durante tutta la sua vita.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Puccini Dance Circus Opera: l’Orchestra della Toscana celebra il centenario della morte del compositore lucchese fondendo musica, teatro-danza e acrobazie circensi
A Bologna si è conclusa con “La traviata” la trilogia verdiana prodotta dall’Orchestra Senzaspine: nitida direzione di Tommaso Ussardi e allestimento in stile “graphic novel” di Giovanni Dispenza.
La Filarmonica Toscanini diretta da Enrico Onofri ha proposto pagine di Beethoven e Schubert, oltre a una “prima” di Daniela Terranova