Il vero e il verosimile
Raffaele Pe e La lira di Orfeo propongono la costruzione indiziaria di una presunta “Versione Senesino” della serenata Aci, Galatea e Polifemo di Händel
La serenata Aci, Galatea e Polifemo è la partitura su cui Georg Friedrich Händel ha maggiormente lavorato nella sua vita. Nata a Napoli nel 1708, come uno dei più interessanti esiti del suo lungo soggiorno italiano (doveva celebrare nozze altolocate), continuò eccezionalmente a vivere di vita propria con riprese in città (1711 e 1713), fuori dal controllo dell’autore. Trasferitosi a Londra, fu Händel stesso a rimettere poi le mani sulla sua partitura giovanile, trasformandola nel 1718 per la residenza di Cannons in quell’Acis and Galatea su libretto inglese che vede l’aggiunta del coro e di ulteriori personaggi rispetto ai tre originali. Nuovi adattamenti d’autore verranno poi per Londra nel 1732, 1734, 1736 e ancora nel 1739, modificando di volta in volta la consistenza di recitativi e numeri chiusi, nonché le tessiture vocali dei protagonisti, originariamente soprano (Aci), contralto (Galatea) e basso (Polifemo). Tali versioni tardive non sono invero ricostruibili nel dettaglio, se non quella in inglese del 1732, più volte pubblicata modernamente (come HWV 49) e registrata in disco, accanto alla versione originale in italiano del 1708 (HWV 72).
Il lavoro fatto recentemente per La lira d’Orfeo da Raffaele Pe e Fabrizio Longo (con la collaborazione di Luca Guglielmi) è congetturare una versione londinese incentrata attorno alla figura di Francesco Bernardi detto il Senesino, il celebre cantante castrato cui Händel legò forse più che a chiunque altro le sue opere teatrali: per tale vicinanza all’autore, i tre revisori ipotizzano dunque che, a Londra, Senesino abbia potuto forse cantare anche una qualche versione non documentata di Aci e Galatea, là dove sappiamo invece con certezza che aveva eseguito la serenata a Napoli in occasione della ripresa del 1713, quando – a insaputa di Händel – le tessiture vocali furono invertite rispetto al 1708, facendo di Aci un contralto (Senesino) e di Galatea un soprano (Anna Maria Strada del Po’).
«Punto di partenza per la confezione della nuova partitura è stato il manoscritto centone Egerton 2953 della British Library…»
Punto di partenza per la confezione della nuova partitura è stato il manoscritto centone Egerton 2953 della British Library, che sotto il titolo di Acige e Galatea raccoglie disordinatamente arie e recitativi riferibili alle varie versioni della serenata, e conferma per i due protagonisti l’inversione dei ruoli vocali: tralasciate dunque le parti corali e quelle destinate a personaggi aggiuntivi, i revisori hanno confezionato una nuova partitura tenendo come guida il libretto napoletano del 1713 e confermando con esso la distribuzione invertita dei ruoli vocali. N’è sortita quella che il booklet allegato al doppio CD chiama «Version for Senesino (London, after 1718)».
Nell’incertezza delle fonti rispetto alle numerose versioni settecentesche più o meno documentate, possiamo allora ben affermare che quella proposta da La lira di Orfeo dapprima in scena ed ora in disco è di fatto una ennesima versione della serenata händeliana ma di concezione moderna, frutto – per così dire – di un accanimento filologico che si appella a un “mite possibilismo” più che a solide certezze. L’operazione pare giustificata principalmente da esigenze performative contingenti, come l’inopportunità scenica per un Raffaele Pe – l’evidente motore e destinatario dell’iniziativa – di far propria la parte contraltile di Galatea o la difficoltà vocale di affrontare quella sopranile di Aci, come previsto dalla partitura originale. Tutto ammissibile, finché si limita a un esperimento isolato; ma alla lunga pericoloso, là dove la congettura dettata da una personalizzazione del testo finisse col diventare per inerzia un nuovo testo diffusamente riconosciuto quale autentico. Così come non esiste una “versione Malibran” filologicamente accertata dei Puritani di Bellini (di cui molti pur tuttavia parlano), altrettanto inesistente è una “versione Senesino” di Aci, Galatea e Polifemo ricostruibile con certezza, a dispetto dell’annuncio netto in copertina «Version for Senesino».
Che non sia poi così immotivato il timore verso una propagazione incontrollata di pasticci post moderni duri da scalfire, lo dimostra – per rimanere in campo händeliano – la difficoltà da oltre mezzo secolo di poter ascoltare in teatro l’opera Rinaldo come la concepì l’autore, troppo spesso proposta invece nella cosiddetta “versione Horne” (tecnicamente confezionata da Charles Farncombe nel 1961), che impasticcia in vario modo le versioni autentiche dell’autore. Ecco, non vorremmo che d’ora in poi l’originale Aci, Galatea e Polifemo venisse analogamente soppiantata da una “versione Pe” della partitura, grazie alla visibilità che l’artista e i suoi progetti teatrali stanno innegabilmente guadagnandosi in questi anni, anche al di fuori della cerchia teatrale specialistica.
«Contrariamente all’immagine mitizzata di castrati che volteggiano spensieratamente fra le note più acute del registro femminile, il Senesino doveva avere una voce di limitata estensione e tutta ristretta in ambito grave…»
Contrariamente all’immagine mitizzata di castrati che volteggiano spensieratamente fra le note più acute del registro femminile, il Senesino doveva avere una voce di limitata estensione e tutta ristretta in ambito grave: prova ne sarebbe il suddetto Rinaldo, il cui title role venne inizialmente concepito da Händel (1711) con una parte vocalmente contraltile e di ambito assai limitato ad uso del castrato Nicolino, ma evidentemente ancor troppo acuta per il Senesino, che si trovò tutte le arie abbassate di un tono in occasione della ripresa del 1731. Raffaele Pe si mostra dunque a perfetto agio nelle (presunte) tessiture di Aci modificate per Senesino, e la sua prova vocale in questa registrazione non fa che confermare il livello delle prestazioni cui da tempo ci ha abituato.
Alla Galatea nelle (presunte) tessiture sopranili di Anna Maria Strada del Po’, la sempre elegante Giuseppina Bridelli offre un timbro più schiettamente mezzosopranile, contribuendo così a una delineazione del personaggio maggiormente solida, matura e caratterizzata, nonché a un iscurimento del colore vocale generale dell’intera partitura, già spinta verso il grave dagli altri due interpreti.
Sì, perché – com’è noto – il terzo incomodo che viene a ostacolare la serenità dei due amanti è quel cattivone di Polifemo che finisce a fare la figura parossistica da orco delle favole, causa la folle parte vocale impostagli da Händel: dal La acuto del tenore giù giù fino alle note del basso profondissimo, qui ulteriormente inabissate dal diapason “barocco” e dalle varianti gravi inserite nei “da capo” delle arie. Ne è interprete Andrea Mastroni, giustamente chiamato “baritono” nel booklet d’accompagnamento, secondo la peculiare accezione settecentesca del termine (vedi le classificazioni di Francesco Saverio Quadrio), che indicava un basso profondo capace di estendersi – ma chissà con quale registro – molto al di sopra del rigo. Impressionante quando scende al Si bemolle contrabbasso (che suona La secondo il diapason moderno!), Mastroni è a suo agio anche nel rapido canto di agilità, mentre mostra inspiegabili approssimazioni nell’intonazione dei passi vocalizzati senza rigore di tempo, come nel primo recitativo accompagnato: forse un effetto drammatico ricercato, per delineare l’indole di babbuasso del personaggio?
Sotto la direzione di Luca Guglielmi, sempre misurata, morbida e al servizio del canto, l’ensemble La lira d’Orfeo ci offre un suono caldo di rara bellezza, senza quegli spigoli e durezze che altrove vanno invece tanto di moda in questo repertorio.