Muti alle radici dell’Europa

Da Atene a Ravenna, le “Vie dell’Amicizia” nel nome di Beethoven

Ravenna, Pala De Andrè (Foto Silvia Lelli)
Ravenna, Pala De Andrè (Foto Silvia Lelli)
Recensione
classica
Ravenna, Pala De Andrè
Le “Vie dell’Amicizia"
09 Luglio 2019 - 11 Luglio 2019

 

Per la ventitreesima volta, il Ravenna Festival compie il suo pellegrinaggio verso luoghi reclamanti attenzione sociale e politica, con un gemellaggio artistico di cui Riccardo Muti è strenuo promotore. La scelta di Atene non mette quest’anno in luce conflitti bellici ma culturali, individuando nella Grecia e nell’Italia le radici storiche di quell’Europa che quotidianamente vacilla sotto i colpi di picconate letali provenienti da più parti. La ripetizione a Ravenna del concerto già presentato sul pendio dell’Acropoli ateniese è stata l’occasione per Muti di lanciare al termine della serata l’ennesimo grido di dolore verso lo stato delle cose, affiancando al tema europeo quanto mai attuale la battaglia di sempre a favore del rilancio dell’educazione alla musica nelle scuole italiane. Ma è vox clamantis in deserto, anche quando siede in prima fila un presidente del Senato: quanti negli anni hanno ascoltato queste parole, promettendo rimedi mai realizzati!

Nel mentre l’occhio cade sulla locandina della serata: accanto all’Orchestra Cherubini (una delle poche risposte concrete alle esigenze dell’occupazione musicale giovanile in Italia) siedono membri della Athens State Orchestra, della Greek Youth Symphony Orchestra, della City of Athens Symphony Orchestra, della City of Athens Philarmonic, della ERT National Symphony Orchestra; e ti chiedi: ma quante orchestre sono attive in una città di mezzo milione di abitanti, capitale di un paese in cui è pur in atto una crisi economica? e fai inevitabilmente il confronto con la situazione italiana, in cui intere regioni sono prive di un’orchestra sinfonica stabile...

Per celebrare le radici italiane e greche dell’Europa, la Nona Sinfonia di Beethoven era scelta simbolicamente obbligata. Muti si è trovato più volte a dirigerla negli anni, anche se la sua identificazione interpretativa con la partitura non ha forse mai raggiunto quella simbiosi che gli viene riconosciuta, ad esempio, con la Settima Sinfonia del medesimo autore.

Il primo movimento non ha lo stacco di tempo solenne e grandioso di certa tradizione teutonica, scorrendo dinamicamente; ma la ripresa “terribile” del tema raggiunge comunque i toni apocalittici che il passo richiede, sotto la spinta sonora dei 130 è più strumentisti assiepati sull’amplissimo palcoscenico. Il secondo movimento scorre rapido ma in tempo giusto, senza subire la corsa al metronomo sempre più svelto che le nuove generazioni di direttori d’orchestra hanno intrapreso. L’attacco del terzo movimento è il culmine interpretativo della serata, per la magica sonorità raggiunta nell’esposizione del tema di quell’Adagio che suona sempre troppo lento o troppo veloce, e che trova invece qui la sua giusta dimensione. E nell’ultimo movimento saranno i violoncelli che sussurrano la prima esposizione dell’Inno alla gioia a far scendere un brivido giù per la schiena.

Dei quattro solisti di canto – Maria Mudryak, Anastasia Boldyreva, Luciano Ganci, Evgeny Stavinsky – più interessanti gli uomini delle donne, con il basso in prima linea per fascino timbrico e saldezza di emissione. Ad un paio di cori greci si univa il coro Costanzo Porta di Antonio Greco, partner tradizionale e professionalmente sicuro di questi eventi.

 

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