Il pathos mediterraneo di Jubran & Hasler

Chiude il festival Ethnos con il duo fra la cantante palestinese e il musicista svizzero

Foto Alessandro Solimene
Foto Alessandro Solimene
Recensione
world
Ethnos Festival
12 Ottobre 2016

Ogni anno tra settembre e ottobre un pubblico cosmopolita accorre ai circa trenta eventi tra concerti, visite guidate, stage, convegni, in un'estensione territoriale da Napoli ai comuni limitrofi di San Giorgio a Cremano, Castellammare di Stabia e altri. Un'estensione anche geograficamente metaforica, con artisti provenienti dall'Estremo Oriente (Mieko Miyazaki, Giappone) al Sud America (Palenque La Papayera, Colombia), passando per Mongolia, Marocco, Spagna, Francia, Svizzera. Eventi organizzati intelligentemente e seguiti con passione. Se la musica etnica, world, popular – insomma, chiamatela come volete – sembra sempre più la wunderkammer di quello che fu, presentando se stessa con grandi agenzie e showcase che assomigliano più alle visite guidate al museo del crossover che a performance simbolo artistico di lotte sociali e civili, l'Ethnos Festival di Napoli consente, da due decenni, viaggi di altra prospettiva e intensità. Il direttore artistico Gigi Di Luca fa convergere suoni e spazi oltre confini immaginari: Fatturata Diawara dal Mali con l'ottocentesco Palazzo Criscuolo di Torre Annunziata, Egschiglen dalla Mongolia con la Villa Vannucchi di San Giorgio – creando eventi fortemente emozionali.

Il concerto che ha chiuso mercoledì 12 Ottobre la XXI edizione è l'ennesimo fiore all'occhiello di un festival che ancora una volta ha puntato su una duplice scommessa: far riflettere attraverso la musica su molteplici identità, (perché la nostra musica "classica" occidentale è solo il 10% della musica del mondo), e far riscoprire un profilo storico culturale del territorio napoletano. Ritorna a Napoli, dopo quasi dieci anni, l'artista palestinese Kamilya Jubran, la cui musica insieme a Werner Hasler (Svizzera) supera la rete dei checkpoint, le barriere che proteggono gli insediamenti, le intimidazioni che circondano ogni lato. È suono nomade e remoto che in distanza riconfigura un nuovo scenario mediterraneo. È voce di mezzo in un mare di convivenza e convergenze che superano politica e religione.

Il duo ha suonato, letteralmente, in una navata del "Camposanto delle Fontanelle" sito nel Rione Sanità di Napoli. Il cimitero, scavato in una roccia tufacea, accoglie 40.000 resti di vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836. Ossa e teschi ovunque, addossati alle pareti, oppure sistemati in teche di legno per essere adottate dai napoletani in cambio di protezione. Un cranio, anzi una "capuzzella", qui da menzionare è quella di "Donna Concetta", citata anche da Pino Daniele.

Sin dalle prime note, il timbro della voce di Jubran è brunito, pastoso, pieno di ombre e malinconie su morbido velluto. Hasler invece, con le sue composizioni elettroniche, è creatore di una tavolozza timbrica ricercata in impasti inediti che evidenziano le ricche sfumature dell'oud di Jubran e che varcano stereotipi compositivi della musica araba. Non c'è eterofonia, neanche quando Hasler suona spunti con la tromba, ma dialogo su diversi livelli tematici che non giungono mai in una definita polifonia. Non si identificano vere e proprie scale modali (maqam), ma un nuovo linguaggio. La melodia è in continua trasformazione, ma si avverte sempre di essere lì perché l'àncora è sempre la voce di Jubran, e il testo è il suo messaggio. Protagonista inevitabile è il ritmo. Sempre ben pensato, lavorato, equilibrato, condotto in porto con consapevolezza, anche quando molto lento come in "Asra" (prigionieri), in simbiosi con la tromba e i live electronics di Hasler. Non c'è nostalgia nello stile dei due. L'oud è suonato senza plettro (risha), pizzicato, a volte arpeggiato come in "Sharqiyya" (Orientale), oppure in tapping sul manico in "Shams" (Sole), ma sempre asciutto, netto – mai un tremolo, o glissando: stile personalissimo ed essenziale.

La voce a volte è lamento modale, gemito disteso su una melodia breve, ripetuta, ostinata. Spesso in passi senza la rete dei suoni elettronici di Hasler - come in "Shariban" (Sconosciuto), la voce è sola, autentico virtuosismo, molto più che acuti o melismi. In scena Jubran è possente e voluminosa, come la sua voce appunto, nonostante il freddo umido della cava di tufo, che, arricchendo di suggestione l'evento, non giovava però alla performance. Nelle scelte poetiche vi è gran parte dell'eredità del passato della poesia del mondo arabo musulmano, con declamazioni infiammate di diversi poeti contemporanei: da Fadhil al-Azzawi (Iraq) a Sawsan Darzawa (Siria) passando per Hassan Nejmi (Marocco) e Khalil Gibran (Libano/USA). La poesia è sempre stata considerata "il registro delle tradizioni degli arabi", una risorsa in tempi di dolore e felicità, un'espressione degli ideali culturali. Nel mondo arabo le parole sono potenti ed efficaci. La poesia conta davvero, qui rinnovata nel linguaggio, ricombinato con la musica in mondi suggestivi.

Il duo Jubran & Hasler è ormai simbolo, archetipo, passaggio obbligatorio, evocativo di pathos mediterraneo. Non un concerto come tanti altri, per un pubblico napoletano, toccato sul vivo da un suono familiare o, come la studiosa Rachel Beckles Willson l'ha definito: profondamente viscerale.

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