La Khovantchina ha brillato a Parigi per il cast. Anche lfiorchestra sotto la bacchetta di James Conlon ha sfoderato molta grinta. Qualche ombra invece sulla regia previdibilissima di Andrei Serban.
Recensione
classica
Opéra National de Paris Parigi
Modest Musorgskij
10 Dicembre 2001
Mancava all'Opéra di Parigi dal 1970. Il minimo che si possa dire è che questa nuova produzione della Kovancina di Moussorgski era particolarmente attesa. Una vero tocco di audacia nel cartellone solitamente belcantistico, concepito dal direttore Hugues Hall (che è ormai in dirittura d'arrivo, lasciando il posto all'ex-direttore artistico del festival di Salisburgo, Gérard Mortier). Ma dopo le circa quattro ore di spettacolo si esce con una sensazione di insoddisfazione, ormai abbastanza frequente a Parigi: musicalmente assai convincente, la produzione ha ancora una volta tradito vistose pecche nella regia. Il fatto è che a forza di attaccare l'eccessivo realismo di tante produzioni operistiche, le regie parigine si ritrovano ormai prigioniere di un accademico antiaccademismo. Una vale l'altra: da un palcoscenico all'altro, da un'opera all'altra, rispuntano gli immancabili clichés: un cubo, un velo, un ponte che attraversa la scena. Sicuramente spaventato dal soggetto storico, il regista rumeno Andrei Serban si è rifuggiato in un'altalena di realismo e di stilizzazione. A scanso di equivoci, ha scelto di far risaltare un monocorde grigio cenere che ha dominato l'intero allestimento. La delusione si fa soprattutto massima nel finale: l'apocalittica scena del suicidio tra le fiamme è ridotta a qualche torcia timidamente accesa e prontamente spenta. Un po' poco per spaventare i soldati dello zar, come vorrebbe il libretto! Niente invece da ridire sull'orchestra che come al solito ha dato il meglio di sé, essendo alle prese con un repertorio insolito che l'ha costretta ad uscire dalla routine. E James Conlon, spesso deludente nell'opera italiana, ha invece sfoderato un gesto sicuro e pieno di energia. Ma, senza dubbio, tutto il successo della produzione è merito del cast, semplicemente perfetto. Uno stuolo di cantanti per un'opera che resta un affresco storico che non indugia sulle vicende private. Comunque, si sono distinti dagli altri, almeno Larissa Diadkova (Marfa), Anatoli Kotscherga (Dosifei) e Vladimir Ognovenko (principe Ivan Khovanski).
A Colonia l’Orlando di Händel tratta dall’Ariosto e l’Orlando di Virginia Woolf si fondono nel singolare allestimento firmato da Rafael Villalobos con Xavier Sabata protagonista