Tutino tra il vecchio e il nuovo
Première a Catania di un apologo-melodramma da Il berretto a sonagli, accanto a La lupa
Il Teatro Massimo Bellini ha commissionato a Marco Tutino – e al librettista Fabio Ceresa – un atto unico da accoppiare al rodato La lupa: scelta caduta, in chiave siciliana e non senza temerarietà drammaturgico-musicale, su Pirandello, in particolare su Il berretto a sonagli; il nuovo titolo operistico è stato battezzato nei giorni scorsi in uno spettacolo la cui firma registica, Davide Livermore, ha avuto – lo si vedrà più avanti – un ruolo determinante nel tramare insieme il vecchio col nuovo. Ma andiamo con ordine, partendo dai testi.
In La lupa Giuseppe Di Leva ha spostato l’ambientazione rurale del racconto e della pièce teatrale di Verga in una metropoli nord-italiana intorno al 1960, come conferma la citazione di Nun è peccato: abbastanza avanti, pertanto, da declinare l’impianto interpersonale originario in un dramma borghese della reciproca e fatale ossessione fisica, ma non senza un lontano sentore di quella realtà ancestrale dentro l’emergente Italia urbana dei consumi, quindi con un accenno alla trasformazione dei costumi e una piccola vena esistenzialista (i due protagonisti fanno sesso “un po’ per divertirsi, un po’ per necessità”). Il reimpiego conseguente di elementi disparati, innestato sulla medesima struttura (due parti divise da un intermezzo sinfonico, che qui segna anche il salto temporale di tre anni nell’azione) di Cavalleria rusticana, cui nel 1990 la première di La lupa ha fatto da compagna per il centenario, si riverbera dal teatrale al musicale: non solo la canzone di Di Capri o il brindisi di Turiddu, ma pure il coltello omicida al posto della contadina accetta o la rinuncia – stavolta volontaria, da parte di Nanni – a un ruolo borghese nelle forze dell’ordine sembrano pescate dall’inter-testualità (Carmen, decisamente…), così come la riconoscibilità sin dal libretto dei versi orientati a una musicazione strofica-ariosa. Nella partitura di Tutino, i due attrattori stilistico-musicali sono il melodramma della ‘giovine scuola’, del quale il compositore enfatizza alcuni comportamenti vocali (fino al didascalico o al gergale, nelle fasi più dialogiche), e il postminimalismo statunitense, efficace laddove le iterazioni circolari dei motivi ricorrenti – soprattutto nell’orchestra – sembrano preludere a un percorso avvitato su se stesso e senza via d’uscita per i personaggi. Non c’è alcuna implicazione negativa nel definire tale soluzione ‘eclettica’, tanto più ch’essa non va per il sottile nel cercare una palese funzionalità scenica: certo fa specie ascoltare la brigata dei compagni d’arme di Nanni intrattenersi a mo’ dei bohémièns di Rodolfo, oppure – nella partitura del Berretto – Beatrice e i familiari stizzirsi per il tradimento maritale su sferzate mèmori dell’apertura di Turandot, o Ciampa farsi sinfonicamente annunciare ed evidenziare da minacciosi incisi tra il Wagner del Ring e lo Strauss di Salome; se queste de-contestualizzazioni siano ricontestualizzazioni gravide di senso, o ingenue reminiscenze fuori-contesto, diventa difficile e forse ozioso argomentare, dopo quasi mezzo secolo di sbrigliati giochi postmoderni.
Nel collegare drammaturgicamente i due lavori, scattano le interessanti scelte registiche: nel finale della prima, Nanni non uccide la Lupa, la cui realtà appare nella seconda parte – grazie pure alla perfetta avvolgenza iper-reale, alle anamorfosi e alla pregnanza cromatica delle scenografie digitali, curate da Livermore insieme a Eleonora Peronetti e D-Wok – mentale tanto quanto fisica, ma se stesso con un colpo di pistola, quale tragica liberazione dal suo assillo patogeno (però le scarpette rosse dell’ultimo fermo-immagine ci ricordano che quasi sempre le vittime sono altre…). Che la distorsione bigotta si annidi nell’uomo, si è intuito durante l’intenso intermezzo, con Nanni pietrificato sul proscenio, in mano il vestito della Lupa appena amata, abito che la figlia Mara indosserà da sua sposa in un malato tentativo di riproiezione.
Il tema tutto siciliano dell’ambiguo e violento dominio sul corpo femminile si ripropone nella riformulazione radicale dell’intreccio di Il berretto a sonagli, a partire dai alcuni suoi personaggi: Ciampa non è più una pirandelliana maschera anziché volto, vittima anch’esso dell’assurdo teatro della vita, bensì un boss malavitoso che manovra la realtà a suo vantaggio (la moglie amante del commendatore, s’indovina, è uno dei suoi tanti oscuri stratagemmi di potere…) e perciò vorrebbe ridurre al silenzio la tradita signora Beatrice Fiorìca, con la complicità dei pavidi ‘amici e parenti’. La pazzia di Beatrice non è dunque il ristabilimento grottesco di un ordine solo apparente, ma l’esito etico e denunciante che, dal corpo individuale femminile, sconfina in quello collettivo delle donne vittime della mafia, come il coagularsi di un compatto fondale di nomi rimarca nell’apologetico epilogo. Molti e significativi, insomma, gli spunti di una regia sia inventiva, sia curatissima – persino calligrafica, in luci, posizioni-azioni attoriali e design degli spazi di Il berretto a sonagli – nei dettagli. Va peraltro riconosciuta, in Tutino, la capacità di orientare variabilmente le proprie cifre di scrittura, e perciò di conferire una tinta differente alla musica del secondo titolo, inquietante nei segni armonico-timbrici (che gli episodi macchiettistici di alcuni personaggi fanno viepiù risaltare) senza uscire dal riferimento maestro alla tonalità in comune con La lupa: dovendo poi scegliere tra i prefissi neo- o post- per una definizione più specifica di siffatta espansione tonale, la regolarità di molte strutture, le progressioni – seppure dissonanti – e gli intervalli paralleli consigliano senz’altro il primo.
Lo spettacolo proposto dal Massimo Bellini è stato di assoluto pregio anche sul piano musicale: le cantanti femminili principali hanno incrociato i ruoli tra i due titoli, con risultati in ogni caso – nel cast ascoltato – encomiabili, sia per la plastica, corposa, conturbante interpretazione della Lupa da parte di Nino Surguladze (inappuntabile poi nel ruolo opposto di Assunta, madre benpensante), sia per il soprano Irina Lungu, vocalmente più a suo agio nel personaggio lirico di Mara, ma abilissima nel fraseggiare ottimamente e con pulizia di suono anche gli impegnativi centri-gravi di Beatrice nel Berretto, con l’aggiunta di una qualità scenica di sofferta dignità. Bravissimi i due interpreti maschili di primo ruolo, un Sergio Escobar sicuro nell’emissione, irrequieto e penetrante come Nanni in La lupa e amaramente brillante come Fifì nel Berretto, dove ha giganteggiato il timbro brunito, la nitida dizione e il fraseggio granitico – sia nel perentorio sia nell’insinuante – di Alberto Gazale, doti indispensabili a scolpire il personaggio di Ciampa. Notevoli anche le prove, sia in La Lupa (Giuliana Distefano, Mariam Baratashvili, Vittorio Vitelli, Pietro Picone, Marco Puggioni, Enrico Marrucci), sia nel Berretto (Rocco Cavalluzzi e Anna Pennisi, con particolare menzione per entrambi nel sostenere con solidità esecutiva ruoli di fatto pressoché paritetici agli altri), di tutti gli altri, capaci peraltro di agire in modo assai convincente da attori di un collettivo. Di alto livello la resa dell’Orchestra del Massimo Bellini, ben guidata da Fabrizio Maria Carminati in un flusso e insieme uno sbalzo del suono miracolosi per partiture nuovissime o quasi nuove.
Il Teatro catanese, in conclusione, va lodato per un’operazione in cui non ha lesinato energie e impegno, ricompensati da un risultato d’indubbio rilievo su molti piani: averla intrapresa secondo un approccio propriamente ‘melodrammatico’, col suo alto tasso di ‘istituzionalità’ (riferimenti al repertorio, ai linguaggi storici, a singoli elementi drammatici), non menoma il valore del tentativo, poiché nel ri-fare melodramma oggi non mancano certo gli snodi problematici a partire già – dalla confezione in équipe della drammaturgia verbale alle scelte di linguaggio musicale – dalla formulazione dei testi antecedenti il testo spettacolare. Ci auguriamo che i tentativi proseguano, non dimenticando che il teatro musicale oggi e ieri non è (stato) solo melodramma.
Pubblico abbastanza consistente – sebbene non numerosissimo – fino all’ultima recita, quando gli applausi per tutti gli interpreti affacciatisi in proscenio son stati molto convinti.
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