Stockhausen e la balena di Crumb

Kathinkas Gesang e Vox balenae insieme a Siena per una storica performance al Chigiana International Festival

Chigiana International Festival
Foto Roberto Testi
Recensione
classica
Chiesa di Sant'Agostino, Siena
Kathinkas Gesang / Vox balenae
21 Luglio 2018

La Chiesa gotico barocca di S. Agostino sorge sul prato di una collinetta da dove si può ammirare uno scorcio non convenzionale di Siena. Nelle ombre magiche del suo interno, tra altari, cappelle, affreschi e pale – grazie al Festival Chigiano e al suo direttore artistico Nicola Sani – si consuma un rito sonoro-visivo-gestuale di grande fascino.

Il Lucifero di Stockhausen (da Kathinkas Gesang als Luzifers Requiem, 1981-83) e la balena di Crumb (da Vox balenae for Three Masked Players, 1971) vi si aggirano con i loro suoni inquieti, con i loro canti. L’accostamento di queste due opere è molto stimolante, se si poteva dare per scontata la presenza del compositore tedesco – è il tempo il tema di quest’anno del Festival – l’opera di Crumb e la performance dell’artista visual finlandese Tiina Osara allargano il contesto esplorativo al suono e al gesto: un mix esplosivo.

Il compositore statunitense George Crumb, nell’eterno dibattito sul rapporto tra natura e arte, rappresenta una delle voci più originali. Nel 1969 ascolta in una registrazione il canto della megattera e ne rimane colpito. Ma per la sua Vox balenae non usa però registrazioni di suoni naturali, un errore secondo lui, ma affida a pianoforte, flauto e violoncello ampiamente elettrificati il compito di ridisegnare quella emozione. Non solo, Crumb, oltre a notazioni tecniche ed effetti timbrici offre anche precise indicazioni scenografiche: l’ambiente del concerto dovrebbe essere illuminato da un blu intenso e i musicisti indossare delle mezze maschere nere per sottolineare la completa spersonalizzazione, l’allontanamento di ogni proiezione umana sull’opera. Il risultato è notevole.  Nella cadenza iniziale Patrick Gallois canta e suona contemporaneamente il flauto, con la bocca copre completamente l’imboccatura dello strumento producendo suoni che trasfigurano aspetti meramente imitativi. Entrano poi il pianoforte di Luigi Pecchia e il violoncello di Francesco Dillon e ci trascinano nelle profondità del mare. Fischi, sibili, vibrazioni sulle corde del piano, pizzicato sul violoncello che poi sviluppa tentazioni melodiche con l’archetto. Il flauto è dolce e trasparente, la tastiera passa da sollecitazioni ritmiche di grappoli accordali a distorsioni cupe. Un intreccio sublime. Poesia pura.

Già il lungo allestimento di Kathinkas Gesang è un happening. Osara prepara in modo maniacale le vaschette dei colori, i pennelli di misure diverse e le varie spatole davanti alla grande tela nera. Appena le luci si abbassano entrano i sei percussionisti, da destra e da sinistra, si muovono in modo meccanico, come marionette, hanno addosso percussioni diverse, piastre sonore e “strumenti magici”, rappresentano i sei sensi, scendono dal palco e si posizionano in postazioni rialzate da terra a loro dedicate, tre da un lato, tre dall’altro della navata centrale. Patrick Gallois con il suo flauto prende posto sul palco a fianco della grande tela nera. La scenografia è pronta.

Kathinkas Gesang fa parte dell’ampio ciclo operistico di Stockhausen Licht, dedicato ai giorni della settimana: rappresenta il sabato, il giorno di Lucifero, giorno di morte, di transizione verso la luce e il canto di Kathinka protegge le anime dei defunti. Si percepisce in quest’opera il pensiero compositivo, l’incessante interscambio, il flusso continuo tra razionalità, scienza e aspetti mistici, allusioni esoteriche. L’utopia di una musica universale come contatto con il mondo sovrannaturale che ha sempre accompagnato il percorso del compositore tedesco.

Il flauto guida tutta l’opera, con note lunghe, strappi, accelerazioni e riflessioni. Quando gli si affiancano ciclicamente le percussioni si sviluppano dialoghi/relazioni/scontri di grande fascino amplificato a dismisura dallo spazio architettonico come dal prezioso contributo del live electronics curato da Alvise Vidolin e Nicola Bernardini che stende un pulviscolo sonoro sospeso. L’aspetto visivo è stimolato dai gesti e dai segni della Osara. L’artista si muove come una danzatrice davanti alla grande tela nera con i suoi pennelli, i suoi colori. Si fa guidare dal flauto, ogni frase è un segno, un cerchio, una forma astratta, ora blu, ora rosa. Pian piano, come i suoni, colori e segni si stratificano, prendono forme misteriose. I sei percussionisti, guidati con maestria e creatività da Antonio Caggiano, nella sfida a Lucifero che vorrebbe fermare il tempo come segno della materia e della carne, si fanno improvvisamente silenziosi di fronte alla voce sensuale, quasi ironica, che esce dal flauto. L’urlo finale riverbera a lungo nella navata di S.Agostino.

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