Salisburgo Stellare

Grande qualità e generale consenso per il primo festival di Markus Hinterhauser

Recensione
classica
Mancano ancora pochi giorni al termine del primo Festival di Salisburgo firmato da Markus Hinterhauser e c’è una sola definizione possibile: trionfo. Qualità altissima, alto tasso di divismo ma impiegato con intelligenza, sale strapiene e frenetica corsa al biglietto per gli eventi di maggiore richiamo. Un bombardamento mediatico con pochi precedenti faceva salire la febbre oltre che i prezzi (si dice che si siano superati i 7000 euro per un posto di platea dai bagarini) per la sopravvalutata “Aida” guidata dall’amatissimo, e senza condizioni a Salisburgo, Riccardo Muti, con la Netrebko al debutto nel ruolo ma con il resto del cast a dir poco discutibile e la non regia dell’iraniana Shirin Neshrat, che denunciava in pieno la propria vera vocazione di artista visuale. E un consenso generale raccoglievano anche “La clemenza di Tito”, nonostante l’assenza di divi e la radicalità delle scelte musicali di Teodor Currentzis, più che per le trouvailles un po’ modaiole di Peter Sellars (anche in questo caso tuttavia va segnalato un cast vocale parecchio deficitario, fatta salva forse solo Marianne Crevassa come Sesto ma certamente non Russel Thomas come Tito), e ovviamente la regina della Pentecoste salisburghese, Cecilia Bartoli, che riproponeva pressoché intatto al pubblico estivo il bellissimo “Ariodante” visto sulla stessa scena lo scorso giugno.

Si sprecano le star anche nelle due produzioni in concerto passate al festival: “I due Foscari” con l’oramai rodata coppia Placido Domingo e Michele Mariotti sul podio come già alla Scala, e “Lucrezia Borgia” con il tris di assi Svetlana Stoyanova, Juan Diego Flórez e Ildar Abdrazakov. Grosses Haus gremitissima per l’occasione e successo garantito, accompagnato da scrosci di applausi a conclusione dell’incalzante sequenza di cabalette, duetti e concertati sgorgati dalla rigogliosa vena donizettiana. Pubblico già benevolo in partenza, il trio non delude facendo sfoggio delle qualità migliori che hanno dato a ciascuno la fama di cui gode. A dirla tutta, la Stoyanova non è una belcantista da manuale e la sua non sarà una Lucrezia Borgia che passerà alla storia, ma svolge il compito con un’intelligenza che le consente di aggirare più di uno scoglio (vedasi soprattutto la gran scena finale “Era desso il figlio mio” nella quale ci sarebbe piaciuto sentirla più furiosa e meno controllata per non sbagliare l’acuto). Flórez fa sfoggio dei leggendari acuti che sono ancora squillanti e sicuri e, come da tradizione, poco si cura del personaggio (Gennaro, nel caso in oggetto). Ildar Abdrazakov è virile e sanguigno e fa capire che il suo Alfonso ti conquisterà con la violenza, se occorre. Fra gli altri si fa notare Teresa Iervolino (Maffio), che cesella con la cura della barocchista la ballata “Il segreto per esser felici” del terzo atto, buono ma indistinguibile il quintetto dei giovani nobili e buone le qualità vocali dimostrate dai giovani Andrew Haji (Rustighello) e specialmente Gordon Bintner (Astolfo), schiacciati però dai big.

Festival di Salisburgo – Lear

Tanto sfoggio divistico rischiava seriamente di mettere in ombra le due produzioni più significative di questa edizione 2017: il “Wozzeck” di Alban Berg e il “Lear” di Aribert Reimann. Del 1925 la prima e del 1976 la seconda: quaranta densissimi anni le separano, ma moltissimo le lega. Scriverà Reimann negli anni di gestazione del suo “Lear”: “Raramente si è raffigurata in maniera altrettanto convincente – forse solo nel Wozzeck di Alban Berg – la solitudine dell’uomo come conseguenza della sua incapacità di vedere chi gli sta intorno”. Ci pensò seriamente Verdi senza però arrivare a nulla, Berlioz non andò oltre un’ouverture e Debussy abbandonò dopo soli due numeri. Ci volle la determinazione di Dietrich Fischer-Dieskau, che inizialmente pensò a Britten, a vincere le resistenze di Reimann che, dopo averci pensato per anni, alla fine cedette dando la finora unica veste operistica alla tragedia cupissima del “King Lear” di William Shakespeare. Questo “Lear” debutta a Monaco di Baviera nel 1978 con Fischer-Dieskau protagonista e seguono innumerevoli allestimenti in tutto il mondo (uno anche al Regio di Torino a firma di Luca Ronconi nel 2001). A Salisburgo arriva per la prima volta e lo trattano da quel classico che ormai è a tutti gli effetti: in buca ci sono i classicissimi Wiener Philharmoniker, il direttore è Franz Welser-Most, che si penserebbe molto lontano da quel clima culturale. Il risultato è da togliere il fiato: è davvero raro sentire una tale limpidezza di suono, ma anche di pensiero, in una partitura a elevatissima densità strumentale e costantemente scossa dalla terribile furia delle percussioni con solamente qualche isola di rasserenante lirismo create da suoni sottili e sfibrati di assoli sparsi. È da apnea la successione incalzante delle scene di apertura: la dichiarazione “in medias res” di Lear della volontà di lasciare il proprio regno alle tre figlie, il ripudio dell’ingrata Cordelia e il tentativo del fedele Kent di aprire gli occhi al re accecato dall’ira, le trame del bastardo Edmund a spese dell’innocente Edgar in fuga e giù in corsa sfrenata verso un abisso di tradimenti e brutalità accesi da una sfrenata bramosia di potere. Un’apnea che si interrompe solo con quell’incontro fra esseri in fuga – Lear con il seguito del buffone e Kent e il fragile Edgar – che fa tirare finalmente il respiro e conforta, anche se per poco, con quella scintilla di umanità fra tanta insopportabile crudeltà. È una brevissima parentesi prima della spirale di orrori che precipita nel finale, riscaldato dal disperato monologo di Lear sul cadavere dell’unica figlia a lui fedele. “Lear è un regalo per un regista” dice Simon Stone, regista di talento di uno spettacolo tesissimo dalla prima all’ultima scena, calibratissimo negli effetti eppure generoso di sorprese, implacabile nel pretendere e ottenere tutto dai suoi formidabili interpreti.

La scena di Bob Cousins nell’immenso palcoscenico della Felsenreitschule ha la nudità dei teatri elisabettiani, con il pubblico disposto tutto attorno. Lo spazio dell’azione, al centro, è interamente ricoperto di una rigogliosa vegetazione (è fertile il regno di Lear) di erba e fiori. C’è una voglia di vita sfrontatamente esibita in quell’afferrare a piene mani le zolle di terra, nel rotolarsi fra le piante nell’orgia dei seguaci di Lear, re senza più un regno e senza più l’angoscia del potere, nel respirare una disperata libertà sotto l’acqua che cade copiosa dal cielo e sporca tutto di fango. Fortissimo è il contrasto con il tappeto bianchissimo con quella enorme macchia di sangue fresco della seconda parte: è la macelleria messa in piedi da Regana e Gonerilla con la complicità di Edmund, coperto da un grembiule bianco lordo di sangue. La violenza non resta confinata al testo ma deborda agli spettatori della tribuna sul palcoscenico, eliminati uno a uno in una raggelante coreografia che non può non richiamare i nostri orrori contemporanei.

Gran colpo di teatro di Stone, come l’idea di non far incontrare Cordelia e Lear in una prigione ma nell’algido biancore di una corsia d’ospedale (e, detto fra parentesi, in un altro ospedale finisce anche il Tito imperatore secondo Sellars). Qui ha l’intensità di un’intimità quotidiana fra una figlia e un padre in un letto d’ospedale che ha bisogno delle sue cure. Nessun finale grandguignolesco, che in un certo senso è già nella violenza del parossismo sonoro, ma sussurrato, del padre che perde l’affetto più caro e con esso la ragione di esistere. Toccante. Semplicemente superlativo il Lear di Gerald Finley: esempio da manuale dell’interpretazione di come dare forza espressiva a un ruolo lavorando di sottrazione e soprattutto stando sul testo. Delle tre sorelle, ammirevole per misura l’introversa Cordelia di Anna Prohaska, ma non meno efficaci nella spavalda esibizione della crudeltà la Regana di Gun-Brit Barkmin e soprattutto la Gonerilla di Evelyn Herlitzius, come al solito impressionante per volume vocale. Espressivi l’Edgar di Kai Vessel e l’Edmund di Charles Workman, forse un po’ troppo distaccato come macellaio. Bene Lauri Vasar nell’imitazione di un senile Gloucester con qualche guizzo di fanciullesca follia e Michael Martens nel dare densità tragica al buffone di corte (suicida nella chiusa del primo atto). Corpose anche le caratterizzazioni di Derek Walton (Albany) e Michael Colvin (Cornwall). Accoglienza trionfale.

Festival di Salisburgo – Wozzeck

“L’uomo è un abisso. Ti vengono le vertigini quando ci guardi dentro”: Wozzeck e Lear uniti dall’abisso che è l’essere umano. Lui è il buon soldato Wozzeck, “una brava persona”, un alieno in un mondo di folli e oltraggiato dalla sua unica ancora possibile alla realtà, Marie, che, dopo averlo umiliato dandogli un figlio non suo, lo tradisce con il tronfio tamburmaggiore. Eccolo l’abisso: il buon soldato Wozzeck sgozza Marie ma non c’è grandezza nella tragedia di quel gesto. Così come non c’è tragedia nella sua morte silenziosa, poco più tardi, nell’acqua dove scivola cercando quel coltello dimenticato. E intanto quel bambino non voluto continua indifferente il gioco anche dopo che un compagno di giochi gli dice con l’innocente crudeltà dei bambini: “Ehi tu! Tua madre è morta!” A Salisburgo il “Wozzeck” ha le immagini dello straordinario illustratore William Kentridge, alla sua seconda impresa berghiana dopo la “Lulu” di un paio di stagioni fa.

È lui stesso a spiegare la chiave scelta per il suo “Wozzeck”: “La mia Lulu era fatta molto con l’idea di usare l’inchiostro di china come una xilografia, con la violenza dei colpi di pennello simili alla violenza del coltello. Le immagini davano l’idea del sangue e la frammentazione dei disegni riflettevano la frammentazione del desiderio nella Lulu. Con Wozzeck per me è stato come tornare ai miei disegni a carboncino, la tecnica che ho usato nelle mie prime animazioni. C’è qualcosa nella granulosità del carboncino, nella ruvidità della carta grezza che sembra corrispondere alla granulosità delle vecchie fotografie, che sono ovviamente una delle fonti, ma anche al fumo che sale dalle ceneri dell’Europa distrutta dopo la prima guerra mondiale.” L’impianto rispetto alla “Lulu” è sostanzialmente lo stesso, ma in questo “Wozzeck” c’è una maggiore sobrietà al posto del frastornante bombardamento di immagini della “Lulu”. La scena di Sabine Theunissen è fissa – una catasta confusa di vecchi mobili e passerelle sospese – e animata dalle inconfondibili proiezioni dell’immaginario di Kentridge con immagini del cinema degli esordi, foto in bianco e nero. C’è anche un fondo di black humor, non estraneo a Berg, nel grottesco bestiario del “Wozzeck” e, soprattutto nei costumi di Greta Goiris, un richiamo agli incubi bellici di Otto Dix come in una moderna Totentanz che avvolge tutti in un movimento verso il nulla. Rispetto alla “Lulu” c’è anche un Kentridge più attento alla dimensione teatrale e meno a quella puramente illustrativa e senz’altro anche grazie a una compagine di grande valore. Wozzeck è Matthias Goerne, straordinario nel far intuire più che esternare un tormento che è tutto interiore e un desiderio di rivolta espresso in quelle frasi oscure appena udibili talora, quasi a volerle negare. Marie è Asmik Grigorian, fragile e inquieta come una bambina cresciuta troppo in fretta che ha fame di sogni. Presenze di lusso dell’allucinato mondo di Wozzeck sono Gerhard Siegel, il Capitano, Jens Larsen, il Dottore, John Daszak, il tamburmaggiore, e Mauro Peter, un Andres delicato e sognante. Nessuna debolezza nel folto gruppo dei ruoli minori (alcuni in forze allo Young Singers Project del Festival) così come nei solisti del coro dell’Opera di Vienna e nelle voci bianche del Teatro di Salisburgo. Aggiunge lustro alla produzione la presenza dei Wiener Philharmoniker guidati con vigore da Vladimir Jurowski in una lettura che restituisce limpidezza alle complesse linee berghiane anche se in qualche passaggio i volumi orchestrali sacrificano le voci.

Ideale complemento al mondo berghiano, due dei concerti che arrivano quasi alla fine della kermesse salisburghese. Il primo vede impegnata la Mahler Jugendorchester sotto la guida di Ingo Metzmacher in un programma aperto dall’“Accompagnamento a una scena cinematografica” del 1930, tentativo non riuscito di sfondamento pre-hollywoodiano di un Arnold Schönberg quanto mai attaccato alla propria estetica (e infatti al pezzo daranno una veste filmica, non davvero holliwoodiana, molto più tardi Jean-Marie Straub e Danièle Huillet), e il “Concert in F” di Georg Gershwin con un brillante Jean-Yves Thibaudet alla tastiera in un bel dialogo con i giovani strumentisti. Seguito “metropolitano” nella seconda parte con l’esasperato espressionismo della folgorante suite del “Mandarino meraviglioso” di Bartók contrastato per il finale dall’incanto bucolico della Seconda suite del “Daphnis et Chloé” scintillante dei mille colori dell’orchestrazione raveliana. Al sole radioso raveliano segue la notte mahleriana della Settima sinfonia eseguita dai Wiener Philharmoniker. Ma è una notte chiara di luna piena e fitta di stelle. Daniel Barenboim li guida con passo spedito, fa brillare gli ottoni come non mai, li fa cantare a voce piena ed è un’orgia di suoni possenti. La luce acciecante (preferibile accecante) del finale si irradia sugli altri movimenti e scende fino agli oscuri recessi nei quali Mahler sprofonda con la sua Sesta. Il Mahler di Barenboim non conosce l’angoscia del suo tempo.

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