Rosso, simbolo di sangue e passione, mischiato a giallo e blu, emblemi delle due squadre di casa, Hellas e Chievo. L’Arena di Verona si accende di colore e si trasforma in un irreale stadio calcistico per Roméo et Juliette, capolavoro di Charles Gounod ritornato sulle scene scaligere dopo trentaquattro anni. L’immaginazione di Francesco Micheli, tra i più promettenti registi della nuova generazione qui al suo debutto, è ingegnosamente ricca. La sanguinosa faida tra Montecchi e Capuleti diventa una sorta di match sportivo, con tanto di scudetti delle due fazioni stesi sugli spalti dell’anfiteatro. L’enorme ellisse areniana entra in dialogo con la ricostruzione sul palcoscenico del Globe Theatre elisabettiano, una sfera semovente che si spacca in due per contenere le famiglie rivali. L’idea di Micheli è che l’opera di Gounod sia «urgentemente rock»: ecco allora che nella mise en scène mescola pizzi e colletti rinascimentali a giubbe in pelle da biker per cavalieri del XXI secolo. Il tutto supportato dalle singolari macchine sceniche di Edoardo Sanchi e dai deliziosi costumi di Silvia Aymonino. Presente e passato a confronto, dunque, e un sentimento immortale come l’amore a fare da collante. Tanto immortale che alla fine i due innamorati non muoiono: spariscono mano nella mano verso il fondo della platea, accodandosi forse al laico pellegrinaggio d’amore dei loro coetanei di oggi verso la casa di Giulietta. La conduzione di Fabio Mastrangelo, al suo battesimo areniano insieme ai due protagonisti, è elegante ed efficace nel sottolineare le sfumature della partitura. Il cast artistico, all’altezza anche nei comprimari e nel Coro, si illumina dell’incantevole Juliette di Nino Machaidze e del calibrato Roméo di Stefano Secco.
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento