Quando un vecchio Palasport ti salva la stagione
Il Teatro Comunale di Bologna avvia fuori sede il nuovo cartellone sinfonico con un Valčuha in stato di grazia
Come raccontavamo lo scorso giugno, il Teatro Comunale di Bologna fu tra i primissimi a riaprire le proprie porte per concerti al chiuso, dopo il lockdown imposto dal Covid. Certo, la situazione era quasi irreale, con la platea liberata dalle poltrone di velluto per ospitare gli orchestrali ben distanziati, e non più di 200 spettatori distribuiti fra i palchi.
Ma già pochi giorni dopo il sovrintendente Fulvio Macciardi annunciava l’acquisizione di un nuovo spazio per riprendere al più presto la programmazione regolare. Lo spostamento delle due storiche squadre di basket bolognesi verso più nuovi palazzetti dello sport alle soglie della città aveva infatti lasciato provvidenzialmente libero il glorioso PalaDozza, a due passi dal centro, che il Comune assegnava al Teatro senza tentennamenti, per superare al meglio le esigenze della ripresa autunnale.
Sembrava cosa lontana nel tempo, quasi un’utopia. E invece l’estate non è ancora terminata, ed eccolo in piena funzione il nuovo PalaAuditorium tirato a lucido, destinato presto a diventare anche un PalaOpera: 1000 posti distanziatissimi, più di quanti ne potesse vantare il teatro settecentesco, e ognuno con perfetta visibilità. Quanto poi all’acustica, ha sorpreso tutti: chi stava nel parterre a ridosso dell’orchestra e chi sparso sulle ampie gradinate. È stato infatti subito evidente come la nuova camera acustica traslocata dal teatro e l’azione combinata di diffusori discretissimi fosse in grado di restituire un suono caldo, morbido, che si propaga omogeneamente per l’intera cubatura della struttura.
Il pubblico – di certo incuriosito e fors’anche un po’ scettico, ma ancor più affamato di concerti dal vivo – è accorso numeroso (biglietti esauriti al botteghino), assoggettandosi pazientemente alle lente procedure d’ingresso controllato. Ed è stato ampiamente ripagato per la fedeltà, confortato anche dall’alta qualità delle esecuzioni proposte.
Si cominciava con il Secondo Concerto per violino e orchestra di Prokof’ev affidato all’ucraino Valeriy Sokolov. È una di quelle partiture che quasi nasconde le difficoltà strumentali, e al violinismo di pungente virtuosismo preferisce i toni lirici che dominano nei primi due movimenti. Sokolov si è pienamente allineato alle intenzioni dell’autore, proponendo un’esecuzione intimistica, riservata, al punto da rinunciare all’immancabile bis solistico che conclude ormai di rito simili esibizioni.
Ma il meglio è venuto con la Quinta Sinfonia di Čajkovskij affidata al genio direttoriale di Juraj Valčuha. Le sue presenze a Bologna sono sempre più frequenti e sempre più strepitose, segno di un rapporto ottimale con l’orchestra. Il suo Cajkovskij è nuancé, mai tronfio (nemmeno nel finale della Quinta Sinfonia!), tutto giocato sugli indugi, su frenate improvvise, sia agogiche sia dinamiche: sono effetti che un direttore comune ottiene con gestualità istrionica per modellare il suono orchestrale davanti agli occhi ammirati del pubblico; Valčuha non ne ha bisogno, almeno con questa orchestra, quasi avesse inoculato nel DNA di ogni strumentista il suo stesso modo di sentire ogni singolo passaggio. In cinquant’anni di esperienza concertistica, è stata di certo la migliore esecuzione di questa sinfonia che mi sia capitato di ascoltare. Ed anche il resto del pubblico sembrava essere d’accordo, a giudicare dall’entusiasmo degli applausi che riempivano quell’inedita sala da concerto.
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