Poche sorprese nella Pasqua di Baden-Baden
La Sesta di Mahler, Tosca e una riduzione della Carmen al Festival di Pasqua
Poche sorprese quest’anno nell’uovo di Pasqua che i Berliner Philharmoniker portano per il quinto anno al pubblico di Baden-Baden. La formula non cambia ma forse si respira già aria di fine regno, con un passaggio di successione sul trono dei Berliner sobrio più che mai.
Un assaggio si è avuto nel weekend inaugurale della rassegna che vedeva alternarsi sul podio il sovrano designato, Kirill Petrenko, e quello uscente, Simon Rattle, in due affollatissimi concerti. Il primo giocava facile con un programma a basso rischio, che prevedeva la Haffner di Mozart e l’omaggio alla madre Russia con la Patetica di Čaikovskij. Omaggio particolarmente apprezzato nella dostoevskijana Roulettenburg del Baden ad alto tasso di frequentazione russa (e specialmente il suo rinomato casinò) fin dalle nozze di zar Alessandro I con Luisa Maria, principessa di Baden. Il secondo invece si misurava con le complesse architetture sonore della Sesta sinfonia di Gustav Mahler decomposta e trasformata, secondo i dettami del metodo Rattle, in una scintillante macchina sonora al servizio delle straordinarie qualità musicali del complesso berlinese. Nell’eterno dibattito se Mahler sia l’ultimo dei classici o il primo dei moderni, non c’è dubbio che Rattle abbracci la seconda ipotesi. Il suo Mahler però non vive i tormenti della finis Austriae ma guarda già oltre: Rattle separa i fili che formano il compatto e tradizionale tessuto del marziale Allegro energico iniziale e apre inedite prospettive sonore di sapore quasi weberniano. E anche più perturbante è il movimento finale, dilatatissimo, squassato dalla violenza delle percussioni e di un gigantesco martello. Più che espressione biograficamente profetica, come voleva credere Alma, la Sesta secondo Rattle è una profezia del dissolvimento che verrà. Per nulla rassicurante.
Rassicura invece la presenza di un complesso a forte vocazione sinfonica come i Berliner in buca per Tosca. Le finezze strumentali si sprecano così come la densità sonora che Simon Rattle tiene a bada per non soverchiare un cast vocale, che si rivela essere il punto debole della produzione di punta dell’edizione 2017 del festival. Kristine Opolais è probabilmente la “rising star” pucciniana del momento: i mezzi vocali li ha tutti, eppure la sua Floria Tosca è glamourous ma fredda, non ti conquista né arriva a toccare davvero le corde emotive (nonostante i colpi bassi del lucchese). Marcelo Álvarez è un Cavaradossi con lo squillo ma più che il disegno del personaggio prevale la prova muscolare. E del terzetto dei protagonisti lo Scarpia di Evgeny Nikitin è il più debole: spesso in affanno, l’intonazione è gravemente incerta, il personaggio non esce. In breve: la macellazione del Vitellio. Degli altri, si salva solo il sagrestano di Peter Rose che ripropone l’usuale repertorio di gag della più trita tradizione.
Sostanzialmente di impianto tradizionale è anche lo spettacolo del regista Philipp Himmelmann, nonostante l’attualizzazione di maniera di scene (di Raimund Bauer) e soprattutto costumi (di Kathi Maurer). Delle prescrizioni pucciniane, particolarmente dettagliate e precise in Tosca, sopravvive poco e le novità, se non turbano più di tanto, nemmeno distolgono o stravolgono il tessuto drammatico dell’opera pucciniana e restano per lo più cosmetiche: il pittore Cavaradossi si appoggia a un laptop per il ritratto dell’Attavanti, Scarpia invece preferisce il Mac e comunica con microfono e videocamera con i suoi cloni torturatori dal suo ufficio tecnologico tappezzato di immagini proiettate. Anche la morte si aggiorna come la tecnologia: se Tosca ancora preferisce il vecchio pugnale per far fuori Scarpia, Mario viene giustiziato tramite iniezione letale alla testa da Spoletta e Sciarrone, assente il plotone di esecuzione, e la stessa fine sceglie Tosca, che si autoinietta la sostanza letale sulla propria testa (del resto non ci sono le mura di Castel Sant’Angelo per il suo celebre salto nel vuoto). Ma l’idea di giocare la carta della medialità resta sostanzialmente irrisolta e non decisiva a dare un carattere più originale allo spettacolo di Himmelmann. A servire al meglio Puccini restano dunque i Berliner con la loro esecuzione sontuosa che rende piena giustizia alla statura europea del compositore.
Rende invece poca giustizia all’originale la riduzione de La tragédie de Carmen portata nella scena dello Stadttheater da un gruppo di interpreti giovanissimi accompagnati da una compagine strumentale dei borsisti dell’Orchester-Akademie dei Berliner Philharmoniker. Accreditata in locandina come una ripresa dello storico spettacolo firmato all’inizio degli anni Ottanta dello scorso secolo da Peter Brook e Jean-Claude Carrière che operava una riscrittura della Carmen sfrondandola degli aspetti più folcloristici e riavvicinandola all’originale novella di Prosper Merimée (ma con qualche variante inedita), in realtà la versione di Baden-Baden comprime ulteriormente tagliando praticamente tutti i dialoghi e riducendola a una successione di arie prive di un qualsiasi tessuto drammaturgico. Né aiuta troppo la scena praticamente spoglia occupata solo da un grande cuore, un’insegna che suggerisce un’ambientazione in una qualche autorimessa (e Escamillo è un pilota con la tuta della Red Bull), un pannello con il tarocco della morte nonostante la scena delle carte sia tagliata, e un inserto cinematografico vagamente godardiano che imbroglia le carte più che chiarire alcunché. Se la regista Sofia Simitzis ha un’idea precisa di cosa debba essere questo spettacolo, di sicuro la tiene ben nascosta dando l’impressione che si tratti un saggio di fine anno senza grandi ambizioni. Piuttosto diseguale il quartetto di interpreti vocali: Céline Akçag (Carmen) e Felicitas Frische (Micaëla) e Johannes Grau (Don José) vocalmente più sicuri e scenicamente disinvolti, mentre Vladislav Pavliuk (Escamillo) è marcatamente piú inesperto. Buona la prova dei giovani strumentisti guidati da Stefan Rössler alle prese con la partitura bizetiana nella riduzione di Marius Constant.
Scriveva Prosper Merimée alla sua sconosciuta: «Je suis pour vous comme un viel opéra que vous avez besoin d’oublier pour le revoir avec quelque plaisir». E se diventasse un programma per il futuro prossimo?
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