Palermo incontra Ligeti
Massimo: Le grand Macabre inaugura la stagione
Il Teatro Massimo apre coraggiosamente la stagione operistica con Le grand Macabre di Ligeti, titolo ormai ampiamente circolante nei teatri europei, qui alla sua prima palermitana. Il Massimo non è nuovo a proposte inaugurali inconsuete (in anni recenti, titoli poco battuti di Strauss o Henze), ma questa scelta voleva essere forse un commiato in grande stile della direzione musicale di Omar Meir Wellber, diventando pure un segnale di continuità nella programmazione per il confermato Marco Betta.
Le annotazioni migliori sono venute proprio sul versante dell’esecuzione vocale e strumentale: le parti dei personaggi sono temibili per l’ampio spettro di vocalità che richiedono (falsetto, recitato) e che va accoppiato qui a performance attoriali sempre impegnative, fortemente sbalzate, e spesso ribaltate nel genere da femminile a maschile: tutti i cantanti se la sono cavata bene, con menzione speciale nel cast per il Piet the Pot del tenore Dan Karlström e per il doppio ruolo Venere-Capo della Gepopo ben diversamente caratterizzato dal soprano Holly Flack. Ottima la prova della compagine strumentale guidata da Wellber entro una partitura di straordinaria articolazione e insieme compattezza: ora acuminata e aggressiva, ora sospesa in superfici bloccate, ora dispiegante processi di accumulazione sovente poggiati su materiali intrisi di allusione storica (eppure sufficientemente astratti), ora focalizzata su precise componenti timbriche, essa è stata valorizzata soprattutto nelle funzionalità drammatiche e nelle svelte impennate che meglio riescono a questo direttore. Solida anche la riuscita del Coro, agente quale ‘turba’ spaesata dalla platea col vantaggio di poter cantare a spartito.
Alti e bassi nella regia di Barbora Horáková: notevoli alcune trovate, come l’infantile Principe Go-Go che si bamboleggia con un orsacchiotto gigantesco, o i suoi due ministri rivali acconciati quali Kamala Harris e Donald Trump, ben architettate le ‘mansions’ sceniche (scene di Thilo Ullrich) in cui sono distribuite le azioni, benché senza rigore rispetto all’entrata/uscita dalle porte-tombe dei personaggi. Fuorvianti altre scelte, soprattutto quella di fare della coppia Amando/Amanda l’ennesima inutile copia delle gemelline kubrickiane in Shining, e non particolarmente originale né riuscita la finta contestazione iniziale, troppo comandata per sembrare credibile. Il motivo di maggior perplessità è costituito però dai consistenti tagli alla scena finale, nella quale tutti si accorgono gradualmente – alcuni con un pizzico di smarrimento – che la fine del mondo non c’è stata, e l’angelo della morte Nekrotzar, fatto ubriacare da Piet e Astradamors, torna deluso nella tomba: un anti-climax di notevole effetto teatrale, innescato nel testo originale dall’inaspettata irruzione di tre ladri (personaggi eliminati a Palermo), però bisognoso di adeguata estensione - dopo il sospensivo straniamento con cui si avvia - per un convincente ‘ritorno al punto di partenza’; benché gli artefici dello spettacolo abbiano mostrato, negli scritti di presentazione, di aver compreso il senso della drammaturgia, ne hanno sacrificato coi tagli quell’effetto, sostituito da un vago senso di burla prolungato dal precedente carnevale apocalittico; ed è da discutere se la possibilità – grazie all’accorciamento – di fare tempo unico sia stata teatralmente guadagno maggiore.
Il pubblico della prima è parso tra l’attento, il divertito, o il sopportante senza entusiasmo, le acuminate quanto efficaci informazioni musico-drammatiche dispiegate in partitura e riverberate sulla scena, applaudendo alla fine – la parte più persuasa – non a lungo ma con convinzione.
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