Malipiero fra sogno e realtà
La stagione lirica del Teatro La Fenice si chiude con La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero da Calderón de la Barca ottant’anni dopo la prima veneziana
Torna alla generazione dell’Ottanta il Teatro La Fenice per l’ultimo titolo della stagione lirica in attesa dell’Otello verdiano che aprirà la nuova stagione fra qualche settimana. Dopo l’Otorino Respighi della Maria Egiziaca nello scorso marzo, è la volta di Gian Francesco Malipiero, compositore piuttosto presente nelle stagioni del teatro veneziano fino agli anni Settanta del secolo scorso e oggi pressoché scomparso. Dal suo ricco catalogo operistico la scelta è caduta su La vita è sogno presentata ottant’anni dopo la prima italiana al Teatro La Fenice, un anno dopo il debutto nel 1943 all’Opera di Breslau (oggi Wrocław), allora parte della Slesia tedesca, nel pieno della seconda guerra mondiale. La fonte è il celebre dramma di Pedro Calderón de la Barca, ma nella riduzione a libretto dello stesso compositore i tagli sono sostanziali e la semplificazione del convoluto plot barocco è drastica (l’opera dura poco più di un’ora). Malipiero elimina anche ogni preciso riferimento geografico dell’originale (la Polonia), preferendo dare al lavoro una veste più astratta se non simbolica: “senza luogo né tempo in un luogo di fantasia” prescrive infatti il libretto. Gli stessi personaggi principali (Basilio re di Polonia e il principe Sigismondo per Calderón) vengono privati del nome per farne figure quasi archetipiche come il Re e il Principe, e degli altri personaggi solo il carceriere e istitutore Clotaldo mantiene il nome originale mentre la dama Rosaura viene ribattezzata Diana, che, come la dea che vaga nei boschi, nel suo girovagare scopre il Principe incatenato nella caverna alla base della sua torre prigione richiamata dai lamenti del giovane.
Dall’incontro probabilmente fortuito ha inizio la vicenda, che vede protagonista un padre, il Re appunto, afflitto dai sensi di colpa per aver condannato alla prigionia il figlio, il Principe, nato sotto infausti presagi, che, secondo il verdetto degli astri interpretati dal sovrano, è destinato a essere “crudele con gli uomini, mi avrebbe umiliato forzandomi a prostrarmi ai suoi piedi”. Se solo così può evitare il destino riservato secoli prima al collega tebano Laio, l’anziano monarca viene però assalito dal dubbio tardivo che il suo comportamento non sia conforme alla carità cristiana. Decide quindi di offrire al figlio una chance: Clotaldo addormenterà il Principe con un filtro e lo trasporterà nella reggia, dove questi riprenderà il posto che gli spetta. Al risveglio, fra molti dubbi (“Sogno? Dormii? Avventuroso viaggio nel sogno?”) il Principe apprende da Clotaldo la verità e reagisce con violenza alla crudeltà subita, spinto dal desiderio di vendetta. Davanti alle intemperanze del giovane, il Re lo respinge e instilla il dubbio che “tutto ciò che vedi non è che un sogno”. Al risveglio, il Principe si ritrova in catene nella sua vecchia prigione, ancora “prigioniero del sogno”. Una folla, però, lo reclama come nuovo sovrano e, nonostante il proprio rifiuto a cedere ancora una volta alle illusioni, il Principe viene liberato e accetta “di vivere questo nuovo sogno” perdonando il padre. La folla acclamante chiosa (marzullianamente) che “se la vita è sogno, sogno può esser vita.”
Nonostante l’uso di un linguaggio intriso di arcaismi e suggestioni tardo-dannunziane, l’opera potrebbe offrire interessanti spunti drammaturgici sia nel rapporto padre-figlio sia nel gioco illusionistico fra realtà e sogno tipico del barocco. Invece il regista Valentino Villa si limita a una semplice illustrazione della vicenda piuttosto ricca sul piano visivo, con evidenti riferimenti alla pittura barocca, grazie soprattutto al contributo essenziale dei costumi seicenteschi di Elena Cicorella e delle luci caravaggesche di Fabio Barettin, più che all’essenzialità delle pareti rotanti concepite dallo scenografo Massimo Checchetto. Lo spettacolo risulta tuttavia teatralmente algido, rinunciando a eludere efficacemente la natura statica e a tratti irrisolta del lavoro malipieriano.
Tutta rivolta alle forme del passato, l’erudita scrittura musicale di Malipiero trova un’ispirata esecuzione sotto la direzione di Francesco Lanzillotta, che privilegia mezzetinte di sapore mestamente elegiaco nella ricca tavolozza dell’Orchestra del Teatro La Fenice. Sul palcoscenico, Leonardo Cortellazzi rende bene il carattere sognante del Principe diviso fra sofferenza e ira ultrice, come Riccardo Zanellato disegna un Re di dolente umanità e Simone Alberghini un compassionevole Clotaldo. Meno compiuti sul piano musicale gli altri personaggi, che comunque trovano buoni interpreti come Veronica Simeoni, una Diana di forte carattere, mentre invece appena abbozzati risultano i personaggi di Estrella e Don Arias di Francesca Gerbasi e Levent Bakirci. Piuttosto curati gli interventi coloristicamente suggestivi del Coro del Teatro La Fenice, piuttosto estraneo però al disegno scenico.
Pubblico numeroso per questo stimolante ripescaggio veneziano. Applausi.
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