Lyon ricorda Elektra e Tristan

Il Festival Mémoires all'Opéra a Lione con Elektra e Tristan und Isolde

Opéra National de Lyon
Elektra (foto di Bertrand Stofleth)
Recensione
classica
Opéra National de Lyon
Elektra / Tristan und Isolde

S'intitola Memoires l'edizione 2017 del festival che si svolge annualmente all'Opéra National de Lyon nei giorni dell'equinozio di primavera. Il titolo è stato scelto, come spiega il sovrintendente Serge Dorny, perché si è pensato di riproporre degli spettacoli che fecero sensazione alcuni decenni fa e di sperimentare come il passare del tempo li abbia cambiati, o più esattamente come abbia cambiato il nostro modo di vederli. Il più antico di questi tre spettacoli era l'Elektra con la regia di Ruth Berghaus, creato nel 1986 alla Staatsoper di Dresda, dove è rimasto in repertorio per ventitre anni.

Elektra è l'opera su cui la Berghaus ritornò più spesso: al Nationaltheater di Mannheim ancora si rappresenta un suo allestimento del 1980, molto diverso da quello riproposto ora a Lione e la differenza dipende dal fatto che a Dresda la Berghaus dovette trovare una soluzione al problema della scarsa capienza della buca dell'orchestra, che non poteva contenere i 126 strumentisti previsti da Richard Strauss. La Berghaus seppe trasformare questa costrizione in una carta vincente e farne l'idea centrale vincente della sua interpretazione dell'opera di Strauss. L'orchestra fu posta sul palcoscenico, ma così restava ben poco spazio per l'azione teatrale, perciò la Berghaus e il suo scenografo Hans Dieter Schaal svilupparono il palcoscenico in verticale, costruendovi un trampolino per i tuffi in simil-cemento, con una torre centrale da cui si dipartono a diverse altezze le piattaforme per tuffarsi. I personaggi vivono costretti in quelle tre piattaforme di pochi metri quadrati ciascuna, simili a celle di una prigione, delimitate non da sbarre ma da esili ringhiere che danno sul vuoto, creando una sensazione di precarietà, di pericolo, di vertigine. Viene così evidenziato l'isolamento di ciascuno in se stesso, nelle proprie ossessioni, odi e paure, perché per venire a contatto e dialogare (ma si può parlare di contatti e di dialoghi tra questi ossessi?) i protagonisti devono spostarsi lungo una scala stretta e ripida, per poi trovarsi insieme in quelle piattaforme anguste, dove uno dei due sembra sempre di troppo.

La Berghaus, che si formò nella DDR alla scuola di Brecht, mantiene ancora alcuni principi del teatro epico brechtiano. Quindi non c'è spazio per lo psicologismo e non ci sono le nevrosi che generalmente rendono isterica la recitazione di Elektra, Egisto e soprattutto Clitennestra. Né c'è spazio per il sentimentalismo, che si potrebbe annidare negli interventi di Crisotemide, quando si abbandona al suo giovanile desiderio di vivere la propria vita e di sottrarsi all'atmosfera luttuosa e soffocante della reggia degli Atridi, e nella scena del riconoscimento tra Elektra ed Oreste.

La regia della Berghaus non scandaglia la psiche dei personaggi, ma è un sismografo duro e spietato del tragico precipitare della vicenda verso l'epilogo. Questi personaggi si muovono, talvolta si agitano, però in realtà non decidono le loro azioni, non agiscono ma sono agiti e vanno ineluttabilmente verso il destino assegnato loro dal fato. È uno spettacolo "freddo", spietato, che non coinvolge emotivamente lo spettatore ma lo tiene inchiodato. La direzione di Hartmut Haenchen, che era sul podio anche alla prima di Dresda del 1983, non è esasperata, non tende all'espressionismo - la data di composizione, 1908, lo giustificherebbe - ma è inesorabile, dura e aspra quanto la regia. L'orchestra della casa risponde ottimamente. Di buon livello il cast, in cui spiccavano l'Elektra di Elena Pankratova, ovviamente, l'Oreste di Christof Fischesser e la Clitennestra di Lioba Braun, rappresentata come una donna ancora giovane - come è giusto - e non come la solita donna sfatta, cui corrisponde spesso, ma non in questo caso, anche una voce giunta all'ultimo stadio.

Se la Berghaus è stata una protagonista del teatro – soprattutto musicale – nei paesi di lingua tedesca, ancor più importante fu Heiner Müller, uno dei maggiori autori teatrali della seconda metà del ventesimo secolo. Per un breve periodo fu anche direttore del Berliner Ensemble, quindi anch'egli era in qualche modo un erede di Brecht. Si ricorda una sua sola regia in campo operistico, il Tristan und Isolde al festival wagneriano di Bayereuth nel 1993, due anni prima della sua morte: uno spettacolo su cui si discusse a lungo, per osannarlo o per criticarlo. Fortunatamente lo si può vedere in dvd, perché la recita cui ho assistito è stata appena un'ombra di quello spettacolo, in conseguenza dello sciopero di un piccolo numero di tecnici, annunciato soltanto poche ore prima: cose che ormai non succedono più nemmeno in Italia. Lo sciopero ha inflitto alcune non gravissime menomazioni alla scenografia astratta di Erich Wonder, che poteva ricordare i quadri di Rothko, ma il colpo mortale è stata l'illuminazione fissa, poiché proprio le luci erano l'elemento fondamentale nella concezione di Müller. Non è quindi possibile dare un giudizio su questo spettacolo, ma da quel che si è visto si può almeno affermare che la recitazione, allusiva e simbolica, accordata più alla musica che allo svolgimento concreto della vicenda, aveva nonostante tutto un grande impatto. Può essere che anche la realizzazione musicale abbia indirettamente sofferto di quello sciopero. Forse i cantanti erano innervositi e distratti da quella situazione imprevedibile, fatto sta che non sono sembrati molto dentro le loro parti. Ann Petersen ha dimostrato di avere una vera voce wagneriana di puro acciaio, ma uguale a se stessa dall'inizio alla fine. Non si può dire che quella di Eve-Maud Hubeaux sia una tipica voce wagneriana, ma era interessante la sua Brangäne giovane e fresca, non una vecchia nutrice, ma una coetanea di Isolde, che capisce bene i suoi sentimenti. Intenso l'accorato Marke di Christof Fischesser, ma debole il Tristan di Daniel Kirch. Sul podio Hartmut Haenchen, con la sua grande esperienza, ha tenuto con sicurezza nelle sue mani il timone l'orchestra, ma anch'egli non è riuscito - per così dire - ad accendere le luci che i tecnici avevano deciso di tenere spente.

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