L’Opera di Roma apre la stagione con Simon Boccanegra
Michele Mariotti è il trionfatore della serata ma anche l’interpretazione dei protagonisti è ammirevole
Per inaugurare la nuova stagione il Teatro dell’Opera di Roma ha scelto SimonBoccanegra, come nel 2012. Allora sul podio stava Riccardo Muti, che era de facto il direttore principale del teatro, ora c’è Michele Mariotti, che ne è il direttore musicale de jure. È il caso di ricordarlo perché quest’edizione regge validamente il confronto con quella di dodici anni fa. Ma è molto diversa.
Tra le opere verdiane il Boccanegra è quella in cui è più forte la presenza di una tinta di fondo unitaria, a cui concorrono sia la presenza del mare, che si avverte nel lontano mormorio delle onde, nei lievi riflessi luminosi e nella leggera nebbiolina che sorge dall’acqua e avvolge la città, sia le atmosfere notturne, gli stretti caruggi, i palazzi medioevali, le parole pronunciate a mezza voce o sussurrate, che siano parole d’amore paterno o di odio politico e di perfidi intrighi.
Ma non per questo è una drammaturgia piatta e priva di forza, perché anzi trabocca di ideali e passioni, sublimi o vili che siano, di agnizioni e di congiure. C’è anche una grande scena corale - ovviamente quella del Consiglio - in cui tutti questi contrasti pubblici e privati escono dalla penombra ed esplodono. In questo quadro Verdi trova il modo - era il 1857, quando l’unità d‘Italia era soltanto un’aspirazione, già sonoramente bastonata nel 1848-1849 - di toccare un argomento che gli stava a cuore, cioè la pace tra genovesi e veneziani, che per estensione è la pace tra tutti gli italiani. Ma quando Simone esclama “E vo gridando: pace! E vo gridando: amor!”, Verdi sembra rivolgersi non solamente agli italiani ma a tutta l’umanità di questi nostri giorni ancora insanguinati da guerre orribili.
Come si è già accennato, Mariotti scava nel profondo delle passioni del Boccanegra, che siano odi o amori, interessi personali o utopie universali, senza ricorrere a toni altisonanti e retorici e lavorando invece sulle inflessioni delle voci e sulle sfumature dell’orchestra, perché sa che le grandi passioni non si esprimono alzando il tono della voce. Per rendere perfettamente le specificità di ogni quadro del Simone, Mariotti si concentra dunque sui dettagli ma all’occorrenza non si tira indietro dinanzi a toni più grandiosi, aiutato da un’orchestra in forma eccellente: ne è un esempio il suono possente ma non violento né aspro degli ottoni nel finale dell’atto primo, degno di una grande orchestra sinfonica.
Ancora oggi molti pensano che avere una voce potente sia per il cantante la via più diretta per coinvolgere gli spettatori, eppure basterebbe risalire alle testimonianze dell’epoca per accorgersi che i grandi cantanti dell’Ottocento non venivano considerati tali per il volume della loro voce. Luca Salsi ha messo a disposizione delle indicazioni di Mariotti una delle migliori (la migliore?) voci baritonali italiane di oggi, superando totalmente quella certa genericità che si riscontra in altre sue interpretazioni e offrendoci un Simone ricco di sfumature non solo vocali ma espressive. In questo Verdi scavato nel profondo Michele Pertusi dà il meglio di sé e lo fa capire subito, fin dalla sublime interpretazione dell’aria “Il lacerato spirto”. Eleonora Buratto è una Maria/Amelia splendida. Stefan Pop è l’unico che qua e là cede alla tentazione di farci ascoltare soprattutto la sua voce (per altro bella e ben impostata) ma ha anche momenti in cui offre un’ottima interpretazione di Gabriele Adorno. Bene la coppia formata da Gevorg Hakobyan, perfido Paolo, e dal suo compare Leone Leoni, Pietro. Meritano la citazione anche Angela Nicoli (l’ancella) e Michael Alfonsi (il capitano dei balestrieri). Il coro, preparato da Ciro Visco, è stato giustamente applaudito come un altro grande protagonista.
Con la collaborazione dello scenografo e costumista Antony McDonald, il regista Richard Jones mette in rilievo fin dall’inizio la netta contrapposizione politica tra popolo e aristocrazia, che è il tema centrale dell’opera, da cui tutto nasce. La sua Genova è una città metafisica, che ricorda i quadri di de Chirico e Carrà. Genericamente novecenteschi sono i costumi, sopra i quali i notabili indossano mantelli dorati e bordati di pelliccia, simboli del loro potere, che sembrano maschere. Non c’è molto spazio per l’approfondimento psicologico dei personaggi, afferma il regista inglese, che isola e indaga le passioni e le situazioni con efficace sobrietà. Ma questo vale per il prologo e per il primo atto, mentre i duetti e i terzetti del secondo e terzo atto si sarebbero giovati di un maggior scavo psicologico. Comunque una regia lineare, forte ed efficace.
Il pubblico era quello tipico delle inaugurazioni (da notare il ritorno dello smoking per gli uomini, che era quasi scomparso da vari anni) ma questa volta sembrava non essere interessato soltanto al rito mondano e alla fine dell’opera ha applaudito a lungo con insolito calore.
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