L’Inquilino di Arnulf Herrmann all’Oper Frankfurt
Non convince del tutto la seconda opera del compositore tratta dal romanzo di Roland Topor
È di cinque anni fa il debutto del compositore Arnulf Herrmann nel teatro musicale con Wasser, accattivante lavoro che narrava di un’identità smarrita attraverso i versi originali del poeta Nico Bleutge. Per la sua seconda opera, Der Mieter (L’inquilino), commissionata dall’Oper Frankfurt, Herrmann torna su un soggetto non troppo dissimile tratto dal romanzo Le locataire chimérique di Roland Topor. Un romanzo che conobbe un certo successo fino agli anni Settanta, quando Roman Polanski nel 1976 ne realizzò una versione cinematografica, L’inquilino del terzo piano, di cui era anche protagonista con Isabelle Adjani. Protagonista del lavoro di Topor è un trentenne, che si trova a vivere in un condominio abitato da presenze ostili, nel quale si avvertono le tracce opprimenti di un enigmatico suicidio, che egli stesso compirà al culmine di una progressivo processo di frantumazione della propria identità e di identificazione con la suicida.
Se nel romanzo di Topor risaltavano soprattutto i grandi temi della psicoanalisi, la trasposizione filmica sviluppava soprattutto il plot secondo le regole del thriller psicologico. Il trattamento del librettista Händl Klaus, non nuovo alle storie di sangue (vedasi soprattutto il suo lavoro per Bluthaus di Haas), adotta invece un punto di vista fortemente soggettivo, quello del protagonista ribattezzato Georg. La sua alienazione paranoide schiaccia la massa dei personaggi di contorno in un insieme informe di presenze ectoplasmatiche che pesano su uno sviluppo narrativo che resta marcatamente ermetico e complessivamente irrisolto nell’articolazione di personaggi, se non di situazioni, appena abbozzati. La stessa mancanza di reale sviluppo drammaturgico si avverte anche nella realizzazione musicale di Arnulf Herrmann, strumentalmente densa e organica, quasi che volesse rappresentare il corpo del protagonista e riprodurne il respiro sempre più affannoso o le sue angosce più oscure.
Coerentemente cupa è la complessa realizzazione scenica del regista Johannes Erath, che con lo scenografo Kaspar Glanert sceglie i tratti dell’incubo. Sollevato al centro di un’eccentrica quanto minacciosa massa informe di presenze, per lo più immerse nel buio, sta il protagonista, il bravo Björn Bürger, isolato nella sua stanza priva di pareti e con solo un lavabo bianco. Efficaci nel dare forma alle inquietudini psichiche le immagini di Bibi Abel proiettate sull’immaterialità di sipari trasparenti. Kazushi Ono guida efficacemente la complessa macchina musicale curando soprattutto il difficile equilibrio fra virulenze orchestrali, amplificate e rimbalzate in sala da diffusori, e il nervoso trattamento vocale.
Applausi.
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