Les Boreades, con un ritardo di 240 anni

L'ultima opera di Rameau è stata finalmente rappresentata sulla scena dell'Opéra di Parigi. Purtroppo ha deluso lo spettacolo diretto da William Christie. Anche il regista Robert Carsen non ha saputo fare meglio. Mentre è apparso convincente il cast. Soprattutto bravi Barbara Bonney e Paul Agnew.

Recensione
classica
Opéra National de Paris Parigi
Jean-Philippe Rameau
07 Aprile 2003
Sulla carta tutto faceva pensare ad un bel colpo dell'Opéra di Parigi. "Les Boréades", l'ultima nata delle opere di Rameau, entrano finalmente nel repertorio dell'Opéra. Ci sono voluti 240 anni: la partitura fu composta nel 1763 e sarebbe dovuta andare in scena l'anno dopo. Se la rappresentazione fu fermata sembra che lo si debba al libretto troppo spinto verso posizioni libertarie. Oggi finalmente il torto è stato riparato. Una scelta che fa onore a Hugues Hall, il direttore in carica della prima scena lirica nazionale. Eppure il miracolo non si è verificato. Qualcosa non fa funzionato. E la macchina si è inceppata. Tanto che in molti, dopo troppi sbadigli, avrebbero concluso che la partitura sonnecchierà ancora qualche anno prima di portarla sul palcoscenico. Certo la colpa non è di Rameau. Anzi. Sono ben altre le partiture di tragédies lyriques francesi, dove un quasi inarrestabile recitativo avvolge lo spettatore per quattro o cinque ore di rappresentazione. Già Goldoni si lamentava. E l'ascoltatore moderno non fa meno fatica di fronte ad uno stile di canto che esteticamente mira ad aderire al dettato della parola. "Les Boréades" però non mancano di invenzione. Uno dei "topos" dell'opera francese, la tempesta, soffia continuamente energia su orchestra, cori e solisti. Basterebbero queste folate di manifestazioni della natura a tenere desta l'attenzione. Purtroppo William Christie tradisce, in modo vistoso, una sua certa tendenza a rallentare, perdendosi in ornamenti e dettagli superflui. È un timoniere che naviga perennemente a vista, non avendo idea della rotta complessiva. E, non a caso, non si va da nessuna parte. Sicuramente mancavano anche alcune decine di ore di lavoro: non pochi sono stati i momenti in cui si aveva l'impressione di assistere ad una prova e non ad esecuzione per un pubblico pagante. L'affondo allo spettacolo lo ha poi dato il regista Robert Carsen, assolutamente in panne. Tanto le sue regie sono solitamente traboccanti di idee, quanto questa sembrava una collezione di "déjà vu", spesso senza legittimità drammaturgica. Ma il vero colpo di grazia è stato inferto dal coreografo e dai ballerini: tutto lo splendore delle danze barocche francesi è stato liquidato in qualche gesto stereotipato (tecnicamente assai incerto). In queste condizioni, chiedere ai cantanti di salvare la produzione è forse un po' troppo. Ma certo hanno fatto del loro meglio. Soprattutto, hanno primeggiato Barbara Bonney, convincente regina in preda a pene d'amore, e il navigato tenore barocco Paul Agnew. Per un'attesa di due secoli e mezzo, si potevano fare qualche sforzo in più.

Interpreti: Barbara Bonney, Anna Maria Panzarella, Jaël Azzaretti, Paul Agnew, Toby Spence, Laurent Naouri, Stéphane Degout, Nicolas Rivenq, Théo Jouilia-Demory, Shadi Torbey

Regia: Robert Carsen

Scene: Michael Levine

Costumi: Michael Levine

Coreografo: Edouard Lock

Orchestra: Les Arts florissants

Direttore: William Christie

Coro: Les Arts florissants

Maestro Coro: François Bazola

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Jonas  di Carissimi e Vanitas  di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento

classica

Napoli: Dvorak apre il San Carlo

classica

Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.