Le sinfonie parigine di Haydn, miniera di invenzioni

Michael Hofstetter alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto

Orchestra di Padova e del Veneto, Michael Hofstetter (Foto Alessandra Lazzarotto)
Orchestra di Padova e del Veneto, Michael Hofstetter (Foto Alessandra Lazzarotto)
Recensione
classica
Padova, Auditorium «Cesare Pollini»
Orchestra di Padova e del Veneto, Michael Hofstetter
27 Febbraio 2025 - 28 Marzo 2025

Franz Joseph Haydn non è solo un compositore che – come Berlioz, come Domenico Scarlatti, come Ravel – non riesce ad essere banale neanche quando si sforza di farlo. È anche uno dei compositori più adatti per osservare le qualità di un direttore d’orchestra: le sue sinfonie, dall’apparenza così innocentemente dimessa, sono una miniera di invenzioni tanto inesauribili che è praticamente impossibile portarle tutte insieme alla luce, ed è perciò interessante vedere come, ciascuno a suo modo, ogni direttore scelga di concentrarsi su questo o quel dettaglio della loro scrittura. Stavolta, sul vetrino del microscopio abbiamo Michael Hofstetter, alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto, con le sinfonie parigine (nr. 82-87). Cosa ne emerge?

Innanzitutto, il senso globale della forma, che in Haydn è l’orizzonte d’attesa per godere di effetti continui di sorpresa. Questi sono talvolta plateali, più spesso sottili. Nel Finale della sinfonia nr. 84 “In nomine Domini” ce n’è uno su cui tanti direttori passano sopra senza quasi accorgersene: è il ritorno a sorpresa del tema prima della coda. Haydn lo realizza ripetendone tante volte la testa in anacrusi, in modo da farti credere che da un momento all’altro stia per ricominciare, ma ogni volta variandola leggermente in altezza o ritmo, tanto da trasformarla pian piano in una serie di sospiri: ed è lì l’illusione, nel far credere che non siano anacrusi: Hofstetter capisce il gioco, e li accentua con piccoli ma espressivi ritardandi; e a quel punto, quando ormai nessuno potrebbe più riconoscere la testa del tema, Haydn lo fa ricominciare.

Per fraseggiare i temi popolari che fanno oltraggiosamente capolino come Trii, Hofstetter danza, e perciò, più che di Mahler (il maggior amante dell’inserimento di canzoni popolari nella forma sinfonica, dopo Haydn), viene evocata la discendenza da qui di certi Ländler di Schubert.

Hofstetter poi, come molti altri suoi colleghi, dedica attenzione alla ricerca timbrica haydniana. I risultati sono ragguardevoli in alcuni movimenti (l’Allegro della “Poule”, l’Adagio della nr. 87) e raggiungono un vertice di poesia nella Romanze della “Reine”, le cui variazioni in minore, distribuite nelle nervature degli archi, avevano le qualità persino decadenti di una tela di Moreau o di un Preraffaellita, ma con l’economia di mezzi della tavolozza di Giotto. Davvero aveva ragione Rimskij-Korsakov quando indicava Haydn come il più grande maestro della strumentazione. Sorgono però dei dubbi quando entrano in scena i timpani (nella nr. 82 e 86), cui Hofstetter domanda di essere praticamente strumento concertante e dare mazzate, più mazzate che può. La varietà di colori china il capo a un monocromatico headbanging. Oltretutto, nel primo movimento dell’“Orso”, alle mazzate si aggiungono i forzando che Haydn mette qui e là su alcuni accenti forti, e l’effetto complessivo era, duole dirlo, del più vieto ba-rock. Ma non facciamo i parrucconi: durava poco, c’era tanto altro, e da Haydn si esce che la vita sembra più bella. Hofstetter e l’OPV applauditi come meritano.

                                                                                                                       

 

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