Le emozioni di Transart
Il Klangforum Wien a Bressanone
Recensione
classica
Difficile resistere all'invito rivolto anche quest'anno dal Klangforum Wien e da Transart di Bolzano in chiusura del festival.
Più di 8 ore di musica cibo e vino, in un ambiente informale. Magazzino industriale alla periferia di Bressanone, diviso in due parti, una per l’ascolto della musica e l’altra attrezzata per la degustazione. Futon e cuscini da una parte, tavoli sedie e candelabri dall'altra. 8 intervalli a base di vino e cibo scandiscono il denso programma musicale.
Per chi ancora non lo conosce il Klangforum è uno dei centri europei più vitali nella musica di oggi. Un ensemble fondato a metà degli anni 80 dal compositore Beat Furrer è oggi costituito da 24 musicisti provenienti da 10 paesi. Nessun direttore stabile, molti si alternano alla guida del complesso, a garanzia di qualità e apertura. Decine di dischi, presenza assidua da decenni nei principali festival di tutto il mondo.
Poco o nulla concede alla contaminazione e alla trasversalità dei generi di cui tanto si parla, al pubblico “giovane” (che comunque fa altre scelte, anche a causa di un’educazione scolastica che in campo musicale è semplicemente assente o votata alla anestetizzazione delle emozioni), e prosegue da 30 anni un’acuta indagine dell’orizzonte contemporaneo, privilegiando naturalmente gli autori di area germanofona. La storia musicale di Vienna, sede dell'ensemble, in effetti ha lasciato un'eredità con cui è difficile non fare i conti.
Il Symposion comincia alle 5 del pomeriggio con l’esecuzione del primo dei 6 Lied von der Erde di Mahler, Das Trinklied vom Jammer der Erde, nell’orchestrazione di Schoenberg. Difficile immaginare un inizio migliore per quello che si prepara. E se qualche bicchiere di vino serve a ben disporsi all’ascolto ben venga (comunque, come dice il lied “scura è la vita, scura è la morte”, non basta certo una bottiglia per dimenticare gli affanni, anzi). Da qualche parte bisognerà pur cercare di contrastare l’indifferenza e la noia che sembrano circondare ormai, almeno dalle nostre parti, quella parte della vita musicale che con orribile termine ci ostiniamo a definire “contemporanea”. Essere attuali, ecco, com’è difficile essere attuali oggi. Forse lo è sempre stato ma oggi più che mai. Tutte le manifestazioni del pensiero sono contemporanee nel momento in cui si offrono a noi e ancora ci parlano, non importa quando sono state realizzate o concepite. Mi torna in mente l’elegante signora di Parigi ricordata da Agamben di cui si diceva a Parigi nell’Ottocento “Elle est contemporaine de tout le monde”. Per almeno un secolo, quello appena passato, essere contemporanei ha significato essere “nuovi”. Oggi mi sembra più interessante la considerazione di Cage che “la musica anziché andare in una sola direzione, sta muovendosi in molte imprevedibili direzioni; il corso del fiume si è aperto in un delta. E da lì, ancora più oltre, nell’oceano”. Donatoni che ascolta il free americano e scrive Hot, Ligeti che concepisce gli Studi per pianoforte anche grazie alla sua scoperta della musica dei pigmei, senza dimenticare Nancarrow e Bill Evans.
Insomma anche per Transart, che si definisce Festival of Contemporary Culture, la questione di dove stia il contemporaneo non è una questione da poco. E concludere il programma con il Symposion dei Klangforum è una risposta di un certo peso. Dopo il lied di Mahler, assolutamente contemporaneo ma soprattutto in questa occasione un segnale e un invito (un aperitivo, per rimanere legati all’impostazione della serata), arrivano le portate principali. Subito l’ensemble esplode con il magnifico Le roseau des reprises di Dieter Ammann, compositore svizzero poco noto in Italia. Anche qui la “novità” non sta nei singoli momenti ma nella avvincente scansione formale, fatta appunto di riprese, in un alternarsi di grande effetto di materiali sicuramente già noti ma montati con lo scopo di creare fratture, accelerazioni, contrasti di indubbio effetto. Quasi musica cinematica, grande potenza espressiva, colore, ritmo, tensione continua. Retorica e teatrale come un'architettura barocca, ma costruita con materiali di oggi. Si va avanti con i brani di Johannes Kalitze, Bernard Gander, Beat Furrer, tutto non solo sopra la media ma decisamente ad altissimi livelli. Poi il solito In C di Terry Riley (a dir il vero un pò fuori contesto e presentato senza troppa convinzione mi pare). Ma il passaggio chiave è il misterioso in vain di Georg Friedrich Haas, scritto nel 2000 e ormai considerata una pagina di quelle destinate a rimanere. Dopo l’ascolto su disco il live permette di entrare meglio in una dimensione di enorme fascinazione, nella prospettiva radicale e spiazzante che Haas adotta in questo e altri suoi brani. Dopo una decina di minuti (in vain ne dura in tutto 70) le luci si spengono e l’orchestra continua a suonare. Si suona al buio, andando a memoria e ciascuno basandosi su quello che accade intorno, sulle parti che suonano prima e insieme. Come rinunciando alla scrittura, quindi al logos, per avvicinarsi a un’altra dimensione, meno razionale e più intima, che attinge a una zona più profonda dell’agire e dell’essere. Armonia spettrale, micro tonalità, figure fatte di cascate discendenti e blocchi accordali. La forma è circolare, tutto ritorna sempre al punto di partenza, il movimento è illusorio. Le lunghe sequenze costruite su scale discendenti sembrano muoversi nell’infinito dello spazio e del tempo. La tecnica è semplice ma di grande effetto: mentre uno strumento arriva al punto più basso della scala un altro riprende dall’alto e così via, in un canone infinito che sembra costruire una continua discesa verso il nulla. Prospettive illusorie come nelle immagini di Escher, e disegnate con altrettanta perizia tecnica. Poi torna luce, di nuovo il buio e ancora la luce. Il clima è scuro, tetro, drammatico. Forse serve sapere che lo stesso Haas segnala che il brano è stato composto nell’anno in cui per la prima volta dal 1945 si insedia in Austria un governo con una componente dell’estrema destra. Tutto in vain appunto. È ormai notte fonda quando la musica torna protagonista, dopo l’ennesimo calice di vino e il dessert. I musicisti non sono più sul palco. Restano i suoni dei loro strumenti, registrati e processati dal vivo nel brano di Uli Fussenegger, contrabbassista dell’ensemble. Si torna a casa notevolmente storditi, ma ciò che più ci ha segnati non è l’alcool.
Il Symposion comincia alle 5 del pomeriggio con l’esecuzione del primo dei 6 Lied von der Erde di Mahler, Das Trinklied vom Jammer der Erde, nell’orchestrazione di Schoenberg. Difficile immaginare un inizio migliore per quello che si prepara. E se qualche bicchiere di vino serve a ben disporsi all’ascolto ben venga (comunque, come dice il lied “scura è la vita, scura è la morte”, non basta certo una bottiglia per dimenticare gli affanni, anzi). Da qualche parte bisognerà pur cercare di contrastare l’indifferenza e la noia che sembrano circondare ormai, almeno dalle nostre parti, quella parte della vita musicale che con orribile termine ci ostiniamo a definire “contemporanea”. Essere attuali, ecco, com’è difficile essere attuali oggi. Forse lo è sempre stato ma oggi più che mai. Tutte le manifestazioni del pensiero sono contemporanee nel momento in cui si offrono a noi e ancora ci parlano, non importa quando sono state realizzate o concepite. Mi torna in mente l’elegante signora di Parigi ricordata da Agamben di cui si diceva a Parigi nell’Ottocento “Elle est contemporaine de tout le monde”. Per almeno un secolo, quello appena passato, essere contemporanei ha significato essere “nuovi”. Oggi mi sembra più interessante la considerazione di Cage che “la musica anziché andare in una sola direzione, sta muovendosi in molte imprevedibili direzioni; il corso del fiume si è aperto in un delta. E da lì, ancora più oltre, nell’oceano”. Donatoni che ascolta il free americano e scrive Hot, Ligeti che concepisce gli Studi per pianoforte anche grazie alla sua scoperta della musica dei pigmei, senza dimenticare Nancarrow e Bill Evans.
Insomma anche per Transart, che si definisce Festival of Contemporary Culture, la questione di dove stia il contemporaneo non è una questione da poco. E concludere il programma con il Symposion dei Klangforum è una risposta di un certo peso. Dopo il lied di Mahler, assolutamente contemporaneo ma soprattutto in questa occasione un segnale e un invito (un aperitivo, per rimanere legati all’impostazione della serata), arrivano le portate principali. Subito l’ensemble esplode con il magnifico Le roseau des reprises di Dieter Ammann, compositore svizzero poco noto in Italia. Anche qui la “novità” non sta nei singoli momenti ma nella avvincente scansione formale, fatta appunto di riprese, in un alternarsi di grande effetto di materiali sicuramente già noti ma montati con lo scopo di creare fratture, accelerazioni, contrasti di indubbio effetto. Quasi musica cinematica, grande potenza espressiva, colore, ritmo, tensione continua. Retorica e teatrale come un'architettura barocca, ma costruita con materiali di oggi. Si va avanti con i brani di Johannes Kalitze, Bernard Gander, Beat Furrer, tutto non solo sopra la media ma decisamente ad altissimi livelli. Poi il solito In C di Terry Riley (a dir il vero un pò fuori contesto e presentato senza troppa convinzione mi pare). Ma il passaggio chiave è il misterioso in vain di Georg Friedrich Haas, scritto nel 2000 e ormai considerata una pagina di quelle destinate a rimanere. Dopo l’ascolto su disco il live permette di entrare meglio in una dimensione di enorme fascinazione, nella prospettiva radicale e spiazzante che Haas adotta in questo e altri suoi brani. Dopo una decina di minuti (in vain ne dura in tutto 70) le luci si spengono e l’orchestra continua a suonare. Si suona al buio, andando a memoria e ciascuno basandosi su quello che accade intorno, sulle parti che suonano prima e insieme. Come rinunciando alla scrittura, quindi al logos, per avvicinarsi a un’altra dimensione, meno razionale e più intima, che attinge a una zona più profonda dell’agire e dell’essere. Armonia spettrale, micro tonalità, figure fatte di cascate discendenti e blocchi accordali. La forma è circolare, tutto ritorna sempre al punto di partenza, il movimento è illusorio. Le lunghe sequenze costruite su scale discendenti sembrano muoversi nell’infinito dello spazio e del tempo. La tecnica è semplice ma di grande effetto: mentre uno strumento arriva al punto più basso della scala un altro riprende dall’alto e così via, in un canone infinito che sembra costruire una continua discesa verso il nulla. Prospettive illusorie come nelle immagini di Escher, e disegnate con altrettanta perizia tecnica. Poi torna luce, di nuovo il buio e ancora la luce. Il clima è scuro, tetro, drammatico. Forse serve sapere che lo stesso Haas segnala che il brano è stato composto nell’anno in cui per la prima volta dal 1945 si insedia in Austria un governo con una componente dell’estrema destra. Tutto in vain appunto. È ormai notte fonda quando la musica torna protagonista, dopo l’ennesimo calice di vino e il dessert. I musicisti non sono più sul palco. Restano i suoni dei loro strumenti, registrati e processati dal vivo nel brano di Uli Fussenegger, contrabbassista dell’ensemble. Si torna a casa notevolmente storditi, ma ciò che più ci ha segnati non è l’alcool.
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