Le due facce di Tancredi

Il "Tancredi" di Rossini oscilla vistosamente tra linguaggio settecentesco e ottocentesco. Alla scansione aria-recitativo si accompagnano momenti di novità che richiamano la sensibilità romantica. Da una scrittura così concepita hanno tratto vantaggio le voci che hanno travato la condizione ideale per mostrarsi in tutta la loro bellezza.

Recensione
classica
Gran Teatro La Fenice Venezia
Gioachino Rossini
25 Ottobre 2001
Il "Tancredi" di questa sera si è presentato inizialmente come uno spettacolo godibile: orchestra ordinata, voci belle e capaci, regia composta, scenografia senza commenti, un po' da presepe. Ma poi, a lungo andare, il piacere iniziale è andato scemando, lasciando evidenti i difetti, anche grossi, della partitura, innanzi tutto, e quindi della messinscena che doveva sorreggerla. Tutti i problemi di questa opera rossiniana derivano fondamentalmente dal suo essere ancora agganciata ad una costruzione di tipo settecentesco con, però, segnali importanti di novità. Settecentesco è l'argomento pieno di equivoci, complicato; settecentesco è il modo di musicarlo: numeri chiusi, recitativo secco, il contralto per il ruolo maschile principale, la musica pensata esclusivamente per le voci; salvo poi riscontrare nell'ampiezza e articolazione dei singoli numeri al loro interno caratteristiche che, evidentemente, settecentesche non sono, ma vanno oltre. E proprio in questa vistosissima oscillazione tra '700 e primo '800 consiste il grave limite dell'opera in questione che infatti si presenta disomogenea, e, quadri anche molto suggestivi, fatti di melodie eleganti, non hanno rilevanza scenica, perché sono inseriti in un contesto che non ha niente a che vedere con il teatro: la scansione in sezioni così ben isolate dall'assenza dell'orchestra (e dagli applausi: che brutta abitudine circense!) non fa acquisire il senso dell'unità drammaturgica (e poi la trama è troppo articolata per essere tutta tenuta a mente), i personaggi non sono indagati nella loro psicologia, ci si ferma alla superficie, alla descrizione dell'affetto. Insomma, i limiti dell'organizzazione secondo la successione aria-recitativo sono tutti lì, accentuati da una regia e scenografia prive di iniziativa, sostanzialmente assenti, e, per questo, incapaci di influire sulla visione. Come accadeva due secoli fa da una scrittura sì fatta hanno tratto vantaggio, questa sera, le voci trovando la dimensione ideale per mettersi in mostra. Vista l'organizzazione del libretto, non potevano non risaltare i due ruoli di spicco: Patricia Bardon (Tancredi) che ha fatto sfoggio di una voce possente ma anche duttile, Patrizia Cigna (Amenaide) che ha mostrato grande agilità e bellezza di timbro; bravo anche Bruce Ford (Argirio). Dopo tre ore e mezza di spettacolo viene da chiedersi, perché non fare un semplice recital per valorizzare voci così belle?

Interpreti: Ford, Bardon, Turco, Cigna, Montiel, Simoni

Regia: Stefano Vizioli

Scene: Alessandro Ciammarughi

Costumi: Alessandro Ciammarughi

Orchestra: Orchestra del Teatro La Fenice

Direttore: Jonathan Webb

Coro: Coro del Teatro La Fenice

Maestro Coro: Giovanni Andreoli

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Napoli: Dvorak apre il San Carlo

classica

Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.

classica

A Colonia l’Orlando di Händel tratta dall’Ariosto e l’Orlando di Virginia Woolf si fondono nel singolare allestimento firmato da Rafael Villalobos con Xavier Sabata protagonista