La voce di Euridice
Gluck alla Fenice con la regia di Pizzi
L’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck ritorna al Teatro la Fenice dopo ventotto anni dall’ultima rappresentazione in una nuova produzione diretta da Ottavio Dantone al cembalo con la regia, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi.
Tra le numerose versioni del capolavoro gluckiano i due artisti hanno prediletto la prima edizione del 1762, andata in scena il 5 ottobre dello stesso anno al Burgtheater di Vienna, data che segna un’autentica svolta all’interno della storia del melodramma.
La riforma ideata dal compositore tedesco, in collaborazione con il librettista Ranieri de’ Calzabigi e il coreografo Gaspare Angiolini, rivoluziona infatti la prassi dell’epoca proponendo un ritorno alla semplicità e alla verità dei sentimenti, rispetto ai virtuosismi e agli esteriori effetti scenografici tipici del teatro barocco.
L’idea portante di questo nuovo allestimento pone la musica, e in particolare la voce, quale elemento cruciale attorno al quale ripensare l’intero significato e il motore drammatico dell’opera.
La componente coreografica viene infatti limitata alla danza di Euridice, affidata alla sinuosità incantevole di Mary Bevan, oltre che ai misurati movimenti pantomimici del coro, sempre presente e partecipe sulla scena.
È proprio la candida Euridice, simbolo della musica e del suo potere salvifico, a rappresentare per Pizzi la chiave dell’intera concezione gluckiana.
La priorità della componente sonora rispetto a quella visiva investe tutte le scelte registiche e scenografiche: sul palco appaiono giovani musicisti, gli amici di Orfeo, che ne seguono da vicino le alterne vicende di gioia e sconforto; gli oggetti scenici sono minimali e le scenografie vengono risolte attraverso proiezioni che scaturiscono naturalmente dalle suggestioni evocate dal testo poetico; i costumi sono sobri, vestono personaggi che potrebbero appartenere ai giovani di oggi i quali incarnano una storia senza tempo; le luci e i colori puntano sulla dialettica luce-buio, bianco-nero, con l’eccezione dell’azzurro che incornicia il lieto fine.
Grazie a questa rinnovata purezza di stile, che si ispira ai principi della riforma gluckiana, l’ascolto e il suono balzano dunque in primo piano, quali strumenti di ascesa verso le regioni superiori dello spirito.
A ben vedere, il dramma del cantore, che porta l’inferno nel proprio cuore, appare come la proiezione di un conflitto tutto interiore dell’anima umana, spezzata tra la morsa della passione e la tensione verso una trascendente armonia.
Il mezzosoprano Cecilia Molinari guida l’ascoltatore in questo avventuroso viaggio di iniziazione donando a Orfeo un timbro ambrato, vibratile, intenso e una capacità espressiva emozionante. La disperazione e la gioia, l’ansia dell’attesa, l’invocazione straziante di una risposta impossibile, il dolore della prova, la fragilità del lutto, si susseguono senza soluzione di continuità, scolpendo un ritratto psicologico ricco di smerigliature.
La voce limpida e struggente della Bevan appare invece l’incarnazione di un sogno, di una magia che sprigiona sentimenti capaci di smuovere a pietas anche le forze degli inferi.
Alla figura di Amore dona infine vitalità e brillantezza il soprano Silvia Frigato, dinamico deus ex machina della vicenda. A lei infatti è affidato il compito di tessere il filo che collega il mondo dei vivi a quello dei defunti. Nessuna forza e nessuna legge resiste a tale immenso potere.
La centralità della musica alimenta ogni dettaglio della partitura, resa da Dantone con elegante freschezza. Tra i momenti più intensi sono da ricordare il piglio energico dell’Overtura, che anticipa la soluzione serena del dramma; la plasticità dei recitativi accompagnati, che assicurano continuità allo svolgersi della vicenda; gli interventi corali, preparati con cura da Alfonso Caiani, evocanti il ruolo affidato al coro nel teatro greco; gli effetti d’eco esaltati dalla presenza dei giovani musicisti sul palco; e la pittura sonora dell’arioso “Che puro ciel”, resa con levità ed eleganza.
Il tema dello sguardo percorre tuttavia segretamente l’intera opera, come una presenza invisibile e sommersa: lo sguardo negato da Orfeo alla sua sposa; la visione furtiva, che condanna a morte per la seconda volta la fanciulla; e infine gli occhi che legano indissolubilmente i due protagonisti posti al centro del palco nella scena conclusiva, ove gli amanti, increduli ed emozionati, vengono finalmente restituiti alla dimensione terrena dei sensi e alla realtà della presenza.
Successo molto caloroso.
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