Il fasto orientale di Turandot
L'opera di Puccini al Covent Garden con la regia di Serban
Recensione
classica
Imponente e raffinato è lo spettacolo firmato da Andrei Serban per la grandiosa Turandot al Covent Garden. Questa regia, creata per Los Angeles nel 1984, arriva allo spettatore col tutta la freschezza di una creazione appena uscita dai laboratori teatrali. Le coreografie minute e aggraziate di Kate Flatt, basate su lenti movimenti di t'ai chi e kung fu, aderiscono perfettamente alla musica come se fossero state fissate sullo spartito. Il coro è raccolto su due ordini di balconate che figurano a fondo palcoscenico stile 'Globe theatre'. In altre occasioni si direbbe che gli ottanta coristi sono relegati nel più totale staticismo ma qui, invece, l'impressione è quella di un'altra platea, spietata e atterrita insieme, che osserva lo spettacolo. La principessa di ghiaccio, Christine Goerke, duella a colpi di enigma con lo stentoreo Calaf di Aleksandrs Antonenko e fa torturare fino allo spasimo il suo alter ego femminile, la piccola schiava Liù affidata alla magnifica Hibla Gerzmava.
La massiccia vocalità della Goerke è messa chiaramente in difficoltà dalla dura sortita affidata da Puccini a quella che forse non era una delle sue figure femminili preferite, così refrattaria ad essere inquadrata nel tradizionale binomio di sposa e madre. Turandot non canta neppure un suono prima della sua mastodontica aria. Ma al terzo enigma la Goerke si è scaldata e diventa dirompente. Antonenko, vocalmente a fuoco fin dal primo ingresso, scenicamente resta piuttosto inerte e rigido. Perfetta nella fusione di gesto e suono è invece la Gerzmava, mentre Ping Pang e Pong, rispettivamente Michel De Souza, Aled Hall e Pavel Petrov, sfoderano un’atletica attorialità. Bene il Timur di In Sung Sim e chiarissima la bella dizione del Mandarino di Yuriy Yurchuk.
Dan Ettinger domina la formidabile massa orchestrale sottolineando l’originalità e il colore dell’ultima e più ambiziosa partitura pucciniana.
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