Il cantiere interminabile

Chiude, con tre direttori sul palco, la 42esima edizione del Cantiere Internazionale D’Arte di Montepulciano

Recensione
classica

Come può chiudere una rassegna come quella del Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano che per la sua quarantaduesima edizione si è data come tematica: Contemplazione ed Estasi?

Dopo cinquanta eventi tra opere, concerti, mostre, recital, danza e performance dove indagare, scovare nel gesto, nella forma, nel suono, nella parola un possibile filo conduttore, quale sintesi proporre? Ma Montepulciano si definisce cantiere non a caso, sottintendendo anche un’idea di costruzione, messa in opera costante, mattone su mattone, di una visione culturale aperta, trasversale, rischiosa e vitale in un forte abbraccio con la storia, la natura di un territorio unico e la sua comunità. Un cantiere che non prevede però date di fine lavori, anzi ogni mattone, ogni idea, ogni progetto ne fa scaturire un altro e poi un altro. Torre di Babele interminabile.

Il direttore artistico e musicale Roland Böer per l’ultimo appuntamento coinvolge di nuovo nella fascinosa Piazza Grande la RNCM Symphony Orchestra (Orchestra del Royal Northern College Of Manchester) composta da giovani musicisti già capaci di confrontarsi abilmente con repertori diversi. Ma la scelta decisiva è quella sul fronte delle opere e dei direttori sul podio. Oltre lo stesso Böer, Marco Angius, che sui linguaggi contemporanei vanta pochi rivali, e Harish Shankar, talentuoso direttore malaysiano, che apre con Contemplazione di Alfredo Catalani (1854-1893). Il compositore lucchese non proprio gettonatissimo, per usare un eufemismo, nei cartelloni festivalieri sta perfettamente dentro la tematica del Cantiere numero 42. Pur dedicandosi prevalentemente alla musica operistica e romanze da camera, con Contemplazione (del 1878) Catalani si conferma come autore di transizione, di confine. Attratto dalla cultura operistica francese, dal verismo, dalle inquietudini del nuovo (aderisce a Milano agli ambienti della Scapigliatura) il compositore rimane anche profondamente coinvolto da un romanticismo intenso, con forti accenti crepuscolari. Shankar è abile nel prosciugare i rischi retorici dell’opera facendo risaltare nella brevità la ricchezza dei colori pastello, suggestioni, intimità, gli spazi sognanti, esaltando una traccia melodica avvincente, che le corde dell’orchestra rendono a tratti struggente ma sempre coerente con il contesto.

Angius si confronta con L’Ascension una delle opere più complesse e intriganti di Olivier Messiaen (1908-1992). Nata nel 1932 come quattro meditazioni sinfoniche per organo nella versione orchestrale (1934) mantiene intatte tutte le peculiarità, le caratteristiche originali e uniche del percorso stilistico del compositore francese. Nelle quattro meditazioni si esalta una religiosità mai austera ma aperta, intrisa di una gioia vitale, comunicativa e visionaria. Nell’accumulazione di materiali diversi, con una forte funzione espressiva, risalta la nota fascinazione dell’autore rispetto alla musica e i ritmi indiani che si traduce in una fantasmagorica ambientazione timbrica e un particolare trattamento ritmico che trasfigura in vibrante esotismo sensuale. La funzione dei fiati risulta importante quanto le ondate stridenti e voluttuose di violini e violoncelli che costruiscono un estraniante atmosfera magica.

Roland Böer si prende sul podio tutta la seconda parte del concerto con Le Poème de l’exstase, op. 54 (1908) di Aleksandr Skrjabin (1872-1915) e Boléro (1928) di Maurice Ravel (1875-1937). Con il compositore russo, influenzato dalle esperienze mistiche ed estatiche agli ambienti letterari decadenti del proprio paese, le simbologie sensuali e cosmiche raggiungono vette notevoli in una e vera e propria rivoluzione armonica. La potenza dell’orchestra, ampliata da corni e arpe, racconta bene l’utopia di Skrjabin, quella dell’arte come strada maestra verso la trascendenza, dove incanto e contemplazione assumono caratteri di trance, l’estasi come stato spirituale in una musica fonte di conoscenza dell’infinito. L’opera è come un viaggio sorprendente e inquieto nel rincorrersi ciclico dei temi, nella ricca pulsione ritmica e melodica distribuita su un tessuto sonoro saturo e astratto, ricco di soluzioni coloristiche le più svariate che Böer richiede all’orchestra in una ricca gestualità.

Come in una sceneggiatura ben scritta il finale non poteva che essere il Boléro di Ravel con la sua inattaccabile posizione conquistata nell’immaginario collettivo anche di chi la musica non la frequenta un gran che. Successo legato al processo della iterazione e quel magico accumularsi di accrescimento ritmico e strumentale, elementi riconoscibili in molta musica commerciale. Destinata inizialmente alla danza l’opera rimane nei repertori come pezzo da concerto presentando una struttura tra le più originali della storia della musica. Una melodia, mutuata da un ritmo di danza spagnola, di trentadue battute, divise in due frasi distinte, che si apre in pianissimo del flauto per poi passare ad altri strumenti sul pulsare costante del rullante in un crescendo inarrestabile, ossessivo che esplode in una vera e propria liberazione finale. Ma ciò che Böer ci vuol dire con questa scelta travalica gli aspetti tecnici della partitura, ci ricorda che la geniale razionalità di Ravel nella costruzione del pezzo, si rivolge ai sensi di chi ascolta, ad una fruizione non razionale che non può non trasfigurare nella metafora dell’atto sessuale. Quindi in piena linea tematica con il Cantiere numero 42.

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