Idomeneo, poche Erinni, molte Eumenidi
Nuova, interessante produzione del capolavoro tragico mozartiano alla Staatsoper di Berlino
La nuova produzione dell’Idomeneo di Mozart per la Staatsoper, formata da McVicar per la regia e Simon Rattle per la direzione, pur con qualche perfettibilità performativa (soprattutto vocale), ha il merito di suggerire una lettura valevole su entrambi i piani scenici e musicali, col secondo a dettare anche le scelte complessive di vocalità. Al di là delle relazioni interpersonali, il dramma è visto da McVicar nella stessa chiave dell’Orestiade, con cui peraltro condivide un personaggio emblematico, l’Elettra incarnante il vecchio ‘ordine’ basato sul clan, sulla vendetta e sul sacrificio cruento; la ybris di Idomeneo è dunque proprio quella di restare prigioniero di quello schema, di giurare alle divinità avverse un sacrificio irrazionale, salvo dovervi sottoporre proprio il figlio, che invece – nell’amare Ilia – rispecchia la concordia progressiva e un’idea di nuova comunità. Il passaggio storico tra due epoche sociali è restituito, nei segni scenici, da costumi rinvianti alla vita in Giappone a cavallo dell’apertura agli scambi con l’occidente, con buona pace del politically correct: di conseguenza, Elettra indossa il kimono più appariscente e tradizionale, ed è sistematicamente riflessa in due figuranti in azioni mimiche da teatro No. Sovrasta il palcoscenico un altro simbolo in tal senso: un enorme teschio, tenuto assieme da nastro adesivo che richiama le forme delle protezioni dell’elmo acheo, ma che suggerisce pure una disgregazione vicina di quel mondo tremendo; si animerà solo quando gli dei puniranno Creta per il giuramento che Idomeneo tarda ad eseguire, provocando mute e dolorose sepolture in una fossa comune (chi vuole rintracciare in tale segno riferimenti alla situazione bellica attuale, ovvero all’inestirpabile del violento e del sopraffattorio nell’uomo, è sicuramente autorizzato, benché ciò sparigli in parte la lettura proposta). Idomeneo, appunto, appare invece una figura ‘terminale’ di quel mondo, uomo stanco e sofferto, ma sempre sublime, sin da quando si accorge subito – comunque troppo tardi – del terribile giuramento.
E qui scatta l’organicità d’impostazione con le scelte d’interpretazione vocale: Andrew Staples (Idomeneo), bravissimo nel fraseggio, chiarissimo nell’emissione vocale e verbale, usa sistematicamente un sottovoce assai espressivo e magnificamente modulato, sublimando il personaggio in un progressivo ‘cupio dissolvi’ che raggiunge l’apice nell’aria del terzo atto; è cioè, di fatto, un personaggio musicale del nuovo mondo ‘contro’ l’appartenenza sancita dal suo giuramento, e non potrebbe essere altrimenti, considerando le elegantissime scelte stilistiche di Mozart per la parte vocale: proprio per l’intima contraddizione tra atto iniziale e carattere intrinseco è, perciò, destinato alla sparizione finale. Arbace, che del passaggio di consegne è una sorta di sensibile ufficiante (e che in effetti riverbera nello stile assegnatogli da Mozart tale funzione di partecipato e altolocato confidente), è stato cantato bene da Linard Vrielink, salvo qualche incertezza ritmica nella prima aria. Magdalena Kožená è un Idamante scolpito, granitico, ben tornito vocalmente in fraseggio ed emissione, che usa un moderato vibrato, invece quasi assente (per mirata scelta interpretativa, pensiamo) nell’eterea Ilia di Anna Prohaska, con qualche piccolo affanno nell’intonazione e – viste le agogiche – in alcuni dettagli del fraseggio. L’Elettra di Olga Peretyatko dispiega le sue qualità drammatiche soprattutto nelle arie di Furia, ma è brava a non forzare e quindi differenziare l’affettuosa aria centrale; senonché per lei soprattutto, e un po’ anche per le altre pur brave interpreti femminili, viene meno un adeguato controllo della dizione italiana, poco chiara se non approssimativa, e nella Peretyatko inficiata da un surplus di vibrato.
L’impianto delle scelte vocali, a conti fatti, funziona egregiamente sul piano drammatico, soprattutto nei pezzi chiusi; che tuttavia in quest’opera – consapevolmente orientata da Mozart a trarre il massimo da inclinazioni riformate e a realizzarle in forme sorprendenti – non lo sono quasi mai del tutto, collegandosi senza soluzione di continuità a recitativi secchi e accompagnati, e strutturandosi al loro interno spesso come vere forme-sonata, anziché come ‘buone vecchie’ forme bipartite. In tale ricchezza di spunti, coinvolgente una straordinaria articolazione timbrica e dinamica, la direzione di Simon Rattle è attenta a far emergere tutti i colori e le sfumature della partitura in una loro versione asciutta, ovvero senza perdere di vista le nervature di lunga gettata e una direzionalità proiettata in avanti. I risultati sono rimarchevoli un po’ ovunque, anche nei brani ad agogica moderata, a parte qualche compressione dei piccoli fraseggi per le voci e qualche perdita di messa a fuoco nei dettagli degli Allegro in coro e orchestra, peraltro assai bravi così come i ruoli vocali minori. Non è un caso che il pubblico abbia salutato con un applauso immediato, convinto ed ‘emotivo’ il magnifico quartetto del terzo atto, il cui moto serrato ha esaltato le relazioni drammatiche illuminate a turno e potenziate dall’articolazione musicale.
Pubblico numeroso, e applausi finali comunque generosi per tutti, con particolare calore in quelli per Rattle.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.