Filippo Gorini e le ultime Sonate di Beethoven e Schubert
Nel concerto all’Accademia Filarmonica Romana anche cinque brevi pezzi di György Kurtág

In Italia abbiamo un nutrito gruppo di pianisti giovani e meno giovani di ottimo livello, il cui unico difetto è di non essere entrati nel luccicante mondo delle star, anche se in realtà non impallidiscono al confronto con quelle star - che siano stelle vere o luci artificiali abilmente create dai media - che importiamo in gran quantità. Senza arrivare a porre dazi su quest’importazioni, dovremmo imparare a valorizzare il prodotto locale. E qua e là si notano dei segnali che si stia cominciando a farlo. Il Premio Abbiati della critica musicale italiano è stato assegnato nel 2022 a Filippo Gorini, che ora l’Accademia Filarmonica Romana ha nominato “artista in residenza” nel triennio 2025-2027: il primo frutto di tale nomina è stato un bellissimo concerto al Teatro Argentina e sicuramente nelle due prossime stagioni altri ne seguiranno e magari - ce lo auguriamo - anche qualche “progetto speciale”.
Questo primo concerto aveva un programma impegnativo, che non tutti possono affrontare. Iniziava con una piccola selezione da Jatetok, la labirintica raccolta di pezzi pianistici che György Kurtág ha iniziato nel 1973 e che ora è arrivata al decimo volume. E crescerà ancora, perché Gorini ha presentato anche tre pezzi inediti composti tra il 2022 e il 2024, che sono evidentemente destinati ad un ulteriore volume. Che Gorini abbia avuto le copie di questi inediti è il frutto di un felice incontro tra il novantanovenne compositore ungherese e il ventinovenne pianista italiano, avvenuto in occasione di un ciclo di quattordici brevi video di Gorini sull’Arte della fuga. Questi cinque pezzi composti nell’arco di oltre mezzo secolo rivelavano la multiforme personalità di Kurtág, che non si è lasciato ingabbiare in nessuna corrente e si è creato un linguaggio personale, che tiene conto delle avanguardie del secondo Novecento ma non ripudia totalmente la tonalità e talvolta conserva anche echi del folklore magiaro. Questa musica può raggiungere risultati sorprendenti, come l’intensa forza magnetica di In memoriam Gyuri Maros: durante tutto il brano si alternano con poche varianti un cupo accordo al grave e una singola nota all’acuto, come un pensiero intimo e doloroso, che si trasmette ad ogni ascoltatore. Si capisce allora perché Gorini definisca Kurtág «uno dei compositori contemporanei più ‘umani’ che io abbia mai incontrato», usando un aggettivo semplice e comune, che non va però affatto sottovalutato, perché si attaglia a non tutti i compositori contemporanei.
Il nucleo del concerto erano però Beethoven e Schubert, che appartenevano a due generazioni diverse ma morirono a meno di due anni di distanza l’uno dall’altro, cosicché pochissimi anni separano le loro ultime Sonate: la Sonata n. 32 in do minore op. 111 di Beethoven è del 1822, la Sonata in si bemolle maggiore D. 960 di Schubert è del 1828. Sono due Sonate notissime ma Il raffronto ravvicinato è molto interessante per l’ascoltatore e molto impegnativo per il pianista.
Della Sonata di Beethoven Gorini offre un’interpretazione attentissima, calibrata, lucida, “oggettiva” ma anche intensa, espressiva. Dà la giusta forza al potente gesto (“Maestoso”) che la apre ma, qui come in seguito, la forza delle sue dita non è volgare atletismo fine a se stesso, come capita con tanti virtuosi attuali, ma è la porta da cui sgorgano l’energia e la tensione interiori, che non vengono meno neanche quando Beethoven passa al pianissimo e ad una ritmica che esprime attesa, sospensione, anche esitazione. Il movimento continua con l’ “Allegro con brio ed appassionato”: anche nei passaggi più furenti e intricati (ad eccezione di qualche brevissimo momento) la mente e le dita di Gorini non perdono la misura e la chiarezza, cosicché tutto giunge nitidamente all’ascoltatore. Nella sublime “Arietta”, che presenta in cinque libere variazioni una semplicissima melodia, Gorini è essenziale, solido, non ricerca preziosismi timbrici, che qui sarebbero fuori luogo, anche perché estranei alle possibilità degli strumenti dell’epoca. Ma il progressivo dissolversi della musica in un pulviscolo sonoro nelle estreme regioni acute della tastiera (parafraso il bel programma di sala di Carla Di Lena) è celestiale.
Probabilmente Gorini ha accostato le ultime Sonate di Beethoven e Schubert proprio per dimostrare che, accanto a tante differenze, sussistono anche delle somiglianze. E per questo - è un’ipotesi - dopo Beethoven ha trasferito un controllo emotivo simile e un simile suono netto e deciso anche in Schubert, a cui in genere ci si accosta con maggior abbandono e con un suono caldo e vellutato. Personalmente confesso che ho sentito una certa nostalgia di quel ‘vecchio’ Schubert. Ma questo non significa che l’interpretazione di Schubert offerta di Gorini non sia stata molto interessante e abbia avuto anche momenti altamente coinvolgenti ed emozionanti. In particolare l’ “Andante sostenuto” è stato meraviglioso. Tra parentesi si è intravista qui un’imprevedibile somiglianza con quel brano di Kurtág cui si è accennato sopra: è simile il ripetersi quasi invariato di un accordo (ovviamente molto più semplice che in Kurtág) cui risponde una nota più acuta; ma qui si inseriscono tra ogni ripetizione tre note che salgono dal grave all’acuto. Gorini è da brivido, proprio perché lo esegue senza nessun sentimentalismo: sono dieci minuti sublimi di musica sconsolata, allucinata, infinitamente triste. Poi, quasi senza pausa tra un movimento e l’altro, Gorini ci trasporta nel mondo completamente diverso del veloce, leggero e giocoso “Scherzo”.
L’ attenzione e l’emozione con cui il pubblico ha ascoltato Gorini sono dimostrate anche dai diversi secondi di raccoglimento prima che scoppiassero gli applausi alla fine delle Sonate di Beethoven e Schubert. Gorini ha ringraziato eseguendo come bis un’aria pastorale della Cantata BWV 208 “La caccia” nella storica trascrizione di Egon Petri, che ha tradotto il titolo originale tedesco (Schafe können sicher weiden) in “Sheep may safely graze”.
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