Cipria sei e cipria ritornerai... E' forse questa la massima cui si può ridurre, parafrasando il titolo, Powder her Face di Thomas Adès, compositore inglese di punta tra quelli dell'ultima generazione (classe 1971). Il primo lavoro di teatro musicale di Adés, andato in scena per la prima volta 7 anni fa all'Almeida Theatre di Londra, e ora approdato (in una coproduzione con la Nimrod Opera di Zurigo) al Teatro Olimpico di Roma per la IUC e l'Accademia Filarmonica Romana, è basato sulle vicende reali della Duchessa di Argyll, ricollocate nello spazio e nel tempo con una evidente intenzione di radiografare, parallelamente allo sviluppo del personaggio, anche quello della società novecentesca. Delle otto scene in due parti in cui è articolato, la prima e l'ultima si svolgono nella contemporaneità, in un albergo in cui l'anziana Duchessa, ormai spiantata, conduce la sua vita illusoria e palinodica del tempo che fu; il personale dell'albergo che la attornia, e che lei continua a trattare come fossero suoi domestici, si tramuta variamente - lungo una serie cronologicamente consecutiva di flashback - nei personaggi della sua vicenda biografica, segnata da un desiderio di appagamento, o meglio di compiacimento degli altri per trovarvi la felicità e la sicurezza esistenziale, come emerge dall'ultimo arioso-confessione posto nella scena finale. Ma il tempo, inesorabile, fa il suo lavoro, e riduce in polvere - anzi in cipria - l'esistenza ormai grama e decaduta della Duchessa. Il libretto di Philip Hensher ha un suo modo efficace di sviluppare questa drammaturgia da racconto morale, organizzato com'è appunto in una struttura paratattica di otto stazioni, con la prima ed ultima a far da cornice. La divisione in due parti si giustifica con il cambio brusco di prospettiva: se la prima parte può esser stata scritta con la collaborazione di uno sceneggiatore di porno, la seconda tira fuori senza indulgenza tutto il moralismo possibile, ma lo fa - come nella prima - cercando di presentare la condanna come un fatto oggettivo, quasi metafisico (la condanna del tempo, più che la relativa e cangiante posizione sociale dei personaggi). La partitura di Adès ricuce questa paratassi immergendo le due parti in un continuum di frammenti, stilisticamente di matrice disparata (elementi importati dal tango alla canzone da musical, quasi-citazioni da Stravinskij fino al minimalismo, pannellature di scrittura assai avanzata), tenuti assieme da un furor di distorsione/centrifuga ritmica, ma soprattutto timbrica: sembra uno Stravinskij all'ennesima potenza post-moderna, ma a tenere unito l'affresco ci pensa anche la presenza evidente, nella scrittura, di un nume tutelare della musica inglese novecentesca, Benjamin Britten, la cui lezione di integrazione stilistica in una costruzione unitaria Adès tiene ben presente rinnovandola nei termini. Questo gioco, vorticoso in una prima parte in cui i punti di appoggio strutturali cedono il passo a questa elettrificazione unitaria e continua dei materiali, si distende nella seconda: pedali, figure sonore, insomma l'articolazione del testo sonoro, hanno un arco più ampio, segnato in conclusione dalla presenza simbolica di un oggetto sonoro (la rotella di una canna da pesca) che polarizza la scrittura timbrica degli altri strumenti simbolicamente attorno allo scorrere del tempo, così come fino ad allora a dilagare spesso era stata la figura di piccoli glissati, connessi alle prodezze sessuali della protagonista (e anche dei comprimari...). Adès riesce comunque a fare non solo dell'allegoria, ma anche del teatro, con i mezzi e dunque le forme presenti: è un teatro da camera, che rinuncia alla presenza-commento del coro, ma lo sostituisce con la forma a raggiera della drammaturgia (protagonista centrale cui si oppone "il mondo", gli altri, a turno impersonati dagli altri tre cantanti), e sceglie un piccolo complesso da camera, dall'organico atipico e la scrittura sfaccettatissima, facendogli occhieggiare in forma distorta generi e stili, ed incaricandolo anche di suturare gli snelli cambi-scena a vista ideati dalla regista Pamela Hunter e dallo sceno-costumista Andreas Becke. E' un teatro che si appoggia a una vocalità sostanzialmente tradizionale, cantata, ma ben condotta, con qualche schizofrenia di troppo, magari progettata nella costruzione del personaggio: per la protagonista, ad es., si va da una stretta mimesi del reale (ivi compreso un "a bocca chiusa" di chiara e diretta allusività sessuale) ad una evidente caratterizzazione attraverso il suo tipo di canto (misurato e lirico, quasi vittoriano...). Gli interpreti vocali (la Duchessa Teresa Ringolz, più i deuteragonisti - importantissimi però nell'economia drammaturgica - Piia Komsi, Mark Beudert e Steven Gallop) erano comunque tutti molto bravi e preparati; il direttore Nicholas Carthy è riuscito a governare bene, con I Solisti della Filarmonica Romana, una partitura assai impegnativa negli incastri ritmico-timbrici. La sera della prima è stata quella deputata al pubblico giovane dell'Universitaria dei Concerti (IUC), che ha applaudito molto il lavoro: cosa succederà nelle prossime repliche, quando ad ascoltare sarà il pubblico della Filarmonica Romana? Fischierà? Uscirà quantomeno perplesso? E per la musica, o le esibite scene sessuali?...
Note: in coproduzione con la Nimrod Opera di Zurigo
Interpreti: Duchessa: Teresa Ringholz. Altri interpreti: Piia Komsi, Mark Beudert, Steven Gallop
Regia: Pamela Hunter
Scene: Andreas Becke
Costumi: Andreas Becke
Orchestra: I solisti dell'Accademia Filarmonica Romana
Direttore: Nicholas Carthy