Bergamo Jazz, buona la “prima” di Lovano
Bel successo di pubblico per la prima edizione dello storico festival diretta da Joe Lovano
Un bel successo tributato da un pubblico sempre più numeroso ha salutato Bergamo Jazz 2024, prima edizione dello storico festival con la direzione artistica di Joe Lovano, sassofonista americano che ha impaginato un programma vario e articolato.
Nei quattro giorni di festival, che si sono svolti tra giovedì 21 e domenica 24 marzo, sono state registrate 6.669 presenze complessive, un pubblico di spettatori giunti a Bergamo da tutta Italia oltre che da diverse nazioni estere – Spagna, Francia, Finlandia, Germania, Polonia, Estonia, Austria, Svizzera, Paesi Bassi, Principato di Monaco, Romania, oltre a Canada e Stati Uniti d'America – seguendo i diversi eventi con un picco di 14 concerti da “tutto esaurito” sui 16 appuntamenti a pagamento.
Caratterizzato dal titolo “In the Moment of Now” pensato dal direttore artistico quale dichiarazione di intenti che ha legato come un filo rosso tutto il cartellone 2024, il festival si è aperto giovedì 21 con le esibizioni di artisti quali Dave Burrell in solo, il trio composto da Danilo Pérez, John Patitucci e Adam Cruz e il quartetto di Fabrizio Bosso, con Julian Oliver Mazzariello, Jacopo Ferrazza e Nicola Angelucci. Il giorno seguente il cartellone ha previsto il duo formato da Moor Mother e Dudù Kouate, il gruppo capitanato da John Scofield con Jon Cowherd, Vicente Archer e Josh Dion oltre a al quartetto di Miguel Zenón, con Luis Perdomo, Hans Glawischnig e Henry Cole.
Sabato 23 – giornata che è stata seguita da chi scrive – il programma è stato aperto dal concerto del duo formato da Naïssam Jalal e Claude Tchamitchian, ospitato tra i quadri raffiguranti strumenti musicali dell’artista seicentesco Evaristo Baschenis custoditi all’Accademia Carrara. Di fronte a l’attento pubblico che riempiva la sala, la flautista vocalist e compositrice nata a Parigi da genitori siriani ha proposto un percorso di ascolto riflessivo e dilatato, sopperendo all’impossibilità di offrirci il suo canto a causa di un’improvvisa indisposizione con la ricca varietà espressiva diffusa dal suo flauto traverso, qualche volta alternato alla cifra più etnica del ney, sorta di flauto dolce caratteristico della musica tradizionale colta persiana. Un tracciato che, evocando le atmosfere di Healing Rituals, album del 2023, l’artista ha percorso disegnando un sentiero musicale decantato e riflessivo. Un carattere che ha marcato un’esecuzione dall’approccio meditativo, assecondata con efficace affinità dal contrabbasso di Claude Tchamitchian. I dialoghi tra i due musicisti hanno quindi distillato atmosfere diverse offrendo intense interpretazioni di brani come, tra gli altri, “Le temps” – dall’album Quest of the Invisible del 2019 – restituendo i momenti più incisivi nell’uso variato degli armonici, ora sfregati via dalle corde del contrabbasso ora soffiati e sparpagliati dalle chiavi e dai fori del flauto.
Nel pomeriggio l’Auditorium di Piazza della Libertà ha invece ospitato la formazione guidata dalla cantante di origine albanese Elina Duni e dal chitarrista inglese Rob Luft che, coadiuvati dal contrabbasso di Kiril Tufekcievski e dalla batteria di Viktor Filipovski, hanno proposto un repertorio che mischiava radici folk tra tradizione balcanica e canto popolare salentino, quest’ultimo evocato fin dal brano “Bella ci dormi” che ha aperto il concerto. Segnata dal titolo “Songs of Love and Exile” l’esibizione del quartetto ha ondeggiato tra ammiccamenti popular, scarti ritmici da ballo popolare e fughe strumentali dove la cifra sofisticata della chitarra di Luft diveniva protagonista di un tessuto strumentale sostenuto con diligenza da Tufekcievski e Filipovski. Su questo sfondo la voce della Duni ha offerto i momenti più interessanti in brani come, per esempio, “Hape Derën”, dove l’evocazione di tracce dal gusto popolare richiamavano storie di migrazioni e di ritorni in patria.
La sera al Teatro Donizetti è stata poi la volta di un doppio set aperto dall’energia sprigionata dal quintetto di Bobby Watson, veterano del post-bop classe 1953 capace di guidare la sua formazione in una sorta di trascinante scorribanda musicale all’insegna di un jazz dal gusto fascinosamente classico. Un carattere assecondato da una formazione che miscelava l’esperienza di musicisti come il contrabbassista Curtis Lundy e il batterista Victor Jones, e la freschezza di giovani quali il pianista Jordan Williams e il trombettista Wallace Roney Jr, protagonista quest’ultimo di alcune sortite segnate da una solida individualità. Ma il centro dei dialoghi strumentali rimaneva il sax alto di Watson, inesausto affabulatore che, come una sorta di pifferaio magico divertito e sornione, con il suo suono teso e intenso del suo strumento guidava in un percorso dinamico e partecipato sia i colleghi sul palcoscenico sia il pubblico che gremiva la sala del teatro.
Un entusiasmo, quello che ha salutato Bobby Watson, che ha accolto anche il secondo set della serata, che aveva come protagonista un altro “grande vecchio” del jazz come Famoudou Don Moye – lui classe 1946 – impegnato in un programma titolato significativamente “Plays Art Ensemble of Chicago”. Iniziativa appositamente pensata per celebrare la presenza a Bergamo di una formazione che annoverava musicisti, oltre allo stesso Don Moye, quali Lester Bowie, Joseph Jarman, Malachi Favors e Roscoe Mitchell, saliti sul palcoscenico del Teatro Donizetti nel marzo del 1974 per uno dei primi concerti italiani, questo progetto ha riportato nello stesso luogo a distanza di cinquant’anni la rievocazione di un evento che è rimasto nella memoria dei tanti allora presenti, oltre che nei racconti raccolti da chi è venuto dopo.
Al fianco di Don Moye, impegnato alla batteria e percussioni, hanno plasmato questa sorta di festoso rituale musicale artisti quali Moor Mother (voce, spoken words, electronics), Eddy Kwon – violinista e cantante protagonista di uno dei momenti solistici più originali ed efficaci della serata – il bravo polistrumentista Simon Sieger (pianoforte, trombone e percussioni), Junius Paul al contrabbasso e basso elettrico e Dudù Kouate (voce, african percussion, water pumpkins drums, talking drum, ‘ngoni, ecc…).
Una vera e propria festa, insomma, che se è parsa procedere a tratti per sequenze giustapposte un poco slegate l’una dall’altra, è stata sicuramente caratterizzata dalla qualità dei musicisti, capaci di assecondare gli intendimenti di Don Moye raccogliendo con meritorio impegno l’ideale testimone di un concerto oltremodo simbolico.
Bergamo Jazz 2024 si è poi concluso domenica 24 marzo con i concerti del duo formato da Emanuele Cisi e Salvatore Bonafede, dal quartetto di Federica Michisanti, Louis Sclavis, Salvatore Maiore e Michele Rabbia, seguiti dal gruppo di Ana Carla Maza, dal solo di Abdullah Ibrahim e dal Modern Standards Supergroup (Ernie Watts, Niels Lan Doky, Felix Pastorius, Harvey Mason).
Bergamo Jazz tornerà nel 2025 dal 20 al 23 marzo per il secondo anno della direzione artistica di Joe Lovano.
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