More: il ritorno dei Pulp
La band di Jarvis Cocker pubblica un nuovo album dopo 24 anni di silenzio discografico

La pubblicazione di un nuovo lavoro dei Pulp dopo 24 anni di silenzio discografico ha oltremanica proporzioni da grande evento. Prova ne sia l’antipasto della settimana passata su BBC 2 con la trasmissione in differita di uno show riservato a pochi intimi.
Suo diretto predecessore era We Love Life, realizzato il quale i Pulp dissero: “Non abbiamo alcuna intenzione di rientrare in sala di registrazione nel prossimo futuro”. Sono tornati poi insieme dal vivo all’inizio del decennio scorso, replicando nel 2023, un anno prima della scomparsa di Steve Mackey, il bassista, cui More è dedicato espressamente.
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Caso vuole che l’uscita coincida con il trentennale dell’apogeo raggiunto dalla formazione, nel bel mezzo del Britpop in auge allora: il 1995 culminò in Different Class a suon di Common People e Disco 2000, sull’onda dell’apoteosi a Glastonbury, dov’erano stati chiamati a rimpiazzare in extremis gli Stone Roses.
È verosimilmente questo dettaglio a spiegare la posizione d’apertura assegnata a “Spike Island”, ritmato episodio di pop orchestrale che prende nome dall’isola irlandese, nel 1990 sede di un concerto leggendario degli stessi Stone Roses.
Montato utilizzando scatti del “making of” di un servizio fotografico risalente ai tempi di Different Class processati con l’impiego dell’Intelligenza Artificiale, il video ha il compito di chiudere il cerchio fra passato e presente. “Sono nato per esibirmi, è una vocazione”, canta qui Jarvis Cocker, definendosi “né sciamano né uomo di spettacolo”: Il centro della scena spetta a lui, unico superstite degli albori della band a Sheffield, datati 1978: non ancora maggiorenne, coronava in quel modo l’aspirazione infantile suscitata dai Beatles e condensata da adolescente nel “progetto Pulp”: “Il gruppo deve farsi strada nel pubblico producendo canzoni pop abbastanza convenzionali, ma leggermente fuori dagli schemi”, annotava su un quaderno scolastico.
Intervistato di recente dal “New York Times”, le ha descritte invece così: “Spesso piuttosto frenetiche, a volte quasi isteriche, cercano di trasmettere qualche idea o di far scattare qualcosa nella mente”. Ora 61enne, riflette sul senso dell’età adulta: “Tutti devono crescere, tutti. Ne siamo sicuri?”, recitano i versi di “Grown Up” in un crescendo di pathos dominato dall’elettricità glam della chitarra e consacrato a “un ultimo tramonto, un estremo bagliore di gloria”.
L’imbrunire arriva coerentemente al momento dell’epilogo: impreziosita ai cori dalla famiglia Eno al completo, “A Sunset” è una carezzevole ballata dal sapore agrodolce (cita la celebre canzoncina pubblicitaria “I’d Like to Teach the World to Sing”, salvo aggiungere beffardamente “ma mi manca la voce”). A differenza del solito, Cocker ha preparato in anticipo i testi, in particolare quello di “The Hymn of the North”, in origine brano a cappella destinato nel 2019 allo spettacolo teatrale Light Falls di Simon Stephens, chiuso da un’ammissione eloquente: “Sei la mia stella polare”. Tema conduttore dell’opera è in definitiva l’amore: immaginario in “Tina” (“Stiamo davvero bene insieme perché non ci incontriamo mai”), nascente in “Farmers Market” (“Ho balbettato qualche convenevole (…) Tu hai sorriso e ho intuito che la vita avevo colpito anche te”, su cadenza di piano e ricami di violino) o al contrario agonizzante, nell’atmosfera mèlo di “Slow Jam” (“Morte lenta, ecco in cosa si è trasformato il nostro amore”) e in “Background Noise”, dove diventa appunto “rumore di fondo, come questo fischio nelle orecchie, come il ronzio di un frigorifero, te ne accorgi solo quando scompare”.
Di contorno troviamo il panico da single espresso in “Partial Eclipse” (“Tornare a vivere in un alloggio sociale, sporadico riscaldamento centralizzato, cerco una tazza pulita mentre indosso un cardigan a sbuffo e calzini spaiati”), la caustica istantanea degna di Gainsbourg raffigurata in “My Sex” (nella quale l’oggetto del titolo è di volta in volta “svago losco”, “esperienza extracorporea”, “leggenda metropolitana”, essenzialmente “tutto mio, allevato a mano”), cui fa da contraltare “Got to Have Love”, numero a trazione disco contenente ammonimenti (“Senza amore ti stai solo masturbando dentro qualcun altro”) ed esortazioni (“L’unica cosa che potrebbe salvarti, l’unica cosa che ti spaventa a morte, l’unica cosa che può riportarti in vita”).
Giovandosi della produzione scintillante di James Ford e del contributo di strumentisti reduci dall’esperimento Jarv Is, in More i Pulp hanno ricominciato a fare musica eludendo la trappola della nostalgia, guidati dall’arguzia tragicomica del signor Cocker, un dandy impareggiabile.