La seconda Manon al Teatro Regio di Torino

La versione di Massenet, la congiunzione astrale e Clouzot

Manon (Foto Daniele Ratti)
Manon (Foto Daniele Ratti)
Recensione
classica
Torino, Teatro Regio
Manon
05 Ottobre 2024 - 29 Ottobre 2024

Con la seconda Manon in cartellone, quella di Jules Massenet, prosegue l’inaugurazione una e trina del Teatro Regio di Torino. Altre voci e altro direttore d’orchestra rispetto alla versione di Puccini, ma stesso regista, Arnaud Bernard, a garantire unità nel concept. E da lui è bene partire.

 

I nostri lettori ricorderanno i dubbi sul «fàmolo cinematografico» della Manon pucciniana per mano dello stesso Bernard, idea generativa di una regia che sembrava risolversi in arredo o mera citazione. Qui no. Tutto si svolge nel tribunale di La Verité, uno dei capolavori di Henri-Georges Clouzot. Magistrati in toga su scranni neri osservano silenti dall’alto il conflitto delle umane passioni. Sotto i loro occhi è evocata la vicenda di Manon, in attesa di giudizio. Manon è Brigitte Bardot: trucco e costume la rendono identica come appare nel film di Clouzot. Anche qui, come nella versione pucciniana (ma ci eravamo dimenticati di dirlo), Manon non è condannata per prostituzione, ma per omicidio di colui che la denuncia. Le differenze dall’originale sono qui ricomposte con estratti da La Verité proiettati su snodi fondamentali, stavolta con una vera integrazione del cinema come veicolo per una nuova drammaturgia. Funziona perché la carica erotica di Manon nell’opera è la stessa di B.B. nel film, identico l’essere elementi di disturbo in una società bigotta, e perciò destinati a sempre essere condannati. L’unico appunto sulla regia è la costante presenza di quel che potremmo chiamare carsenismo (poiché tipico di Robert Carsen), ossia il rendere enfatici gesti normalmente minimi (esempio: se voglio versare della chartreuse – non vi sfugga la citazione pirandelliana – devo prima agitare per aria la bottiglia, possibilmente camminando in mezzo a figuranti che ostentano approvazione).

 

Ma la vera festa è dal lato musicale. Raramente gli astri si congiungono in modo da regalare nella stessa serata un direttore (Evelino Pidò) e una serie di interpreti (Ekaterina Bakanova, Atalla Ayan, Roberto Scandiuzzi, Björn Bürger, Thomas Morris) che non solo sono eccellenti di per sé, ma anche nell’interazione reciproca. Si veda il duettino del terzo atto tra Manon e Des Grieux padre, uno dei punti nei quali Massenet realizza uno stile di conversazione dove il ribollire di passioni dilanianti viene espresso dall’artificio di una disinvolta grazia. Bakanova e Scandiuzzi hanno portato il canto talmente vicino al parlato da far dimenticare che stavano cantando, e pur cantavano portando alla luce ogni singola sfumatura di significato, e con un timbro magnifico. La scena prevede l’alternarsi dell’orchestra in buca e delle danze di un’orchestrina fuori scena. Basta poco perché questa sia o inudibile o troppo forte. Pidò ha saputo mantenere le dinamiche in quel punto millimetrico che fonde l’orchestrina con la parola cantata senza che una soverchi l’altra; e ne torniva il fraseggio come se le danze fuori scena anch’esse cantassero. L’effetto che ne scaturiva era semplicemente ciò che Hofmannsthal chiamava la profondità nascosta in superficie. (Più Lubitsch che Clouzot, ma che gli vuoi dire?)

                                                                                                                       

 

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