Bettinelli e Chailly, un teatro musicale della crisi?
Al Lirico Sperimentale di Spoleto, ghiotta – e riuscitissima – riproposta di due titoli fine anni ’50.
Il Lirico Sperimentale di Spoleto prosegue la sua meritoria opera di riproposta di titoli scenici, più o meno obliati, risalenti ai vent’anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale. Storicamente è una fase d’inquietudine carsica nel campo delle drammaturgie musicali: il linguaggio sonoro va torcendosi oltre e fuori la koiné neoclassica pre-bellica, la vocalità segue tale processo con minore evidenza, spesso gli impianti drammatici sono ricollegabili alla proto-crisi del dramma moderno – parafrasando la definizione di Szondi – e l’organico strumentale è cameristico (con incisive soluzioni timbriche); tutti – insomma – segnali di ripensamento non ‘radicali’, rispetto a quelli della neo-avanguardia, ma con esiti comunque di tutto rispetto e coerenti alle premesse linguistico-estetiche. La missione di tale riscoperta appare peraltro particolarmente congeniale all’istituzione spoletina, che è nata proprio all’inizio di quel periodo, e che forma cantanti usciti da non molto dagli studi accademici, dove la rivoluzione della vocalità secondo-novecentesca ha ancora poca cittadinanza: preparare vari titoli a rotazione, nei ritmi serrati di un ‘festival’ di fatto, vale un’esperienza profittevole sicuramente con quel repertorio. Resterebbe poi il problema dello scrivere teatro musicale oggi, come il pur interessante e onesto tentativo di Gilberto Cappelli (sempre a Spoleto, una settimana prima), al suo primo titolo scenico, testimonia: Anita è una cantata lirico-visionaria sull’eroina e compagna di Garibaldi, in cui i tratti materici della sua scrittura galleggiano su una riconoscibile intelaiatura armonica, e quasi più ‘tematica’ che cellulare; scelte motivate certo dal tentativo di tenere in un arco sonoro unitario i vari episodi, però col risultato di una smaccata quanto estenuante periodicità del tempo musicale.
Ma veniamo al dittico che ha ripresentato assieme, 65 anni dopo la première (a Como), Procedura penale di Luciano Chailly e La smorfia di Bruno Bettinelli. Il primo lavoro ha poi goduto di una buona ma non recente circolazione; il secondo invece non è stato più ripreso, e sarebbe stato un peccato non conoscerlo: la partitura diverte, è ben cesellata e adeguatamente spigolosa nelle soluzioni timbriche congegnate per sorreggere un’azione satirica fino al sarcasmo. Forse il punto debole sta nel libretto di Bacchelli, un po’ lungo e verboso, in sostanza retrospettivo nel ripercorrere tòpoi precedenti (la ragazza che prende l’iniziativa ma dice il contrario, il vecchio padre burbero – qui anche rincitrullito dalla mania della cabala – che ne ostacola i propositi sentimentali verso il giovane aiutante di farmacia) e nell’usare una lingua caricaturale vagamente ‘scapigliata’, ma ciò accade con efficace capacità di parodia e di vivificazione di quei topoi, che Bettinelli asseconda con buona capacità inventiva. Procedura penale di Chailly è un gioiello perfettamente costruito sullo svelto libretto di Buzzati: il testo è magistrale nello slittare – alla Dürrenmatt – da un clima di vacuo sciocchezzaio in un salotto altolocato all’incubo, per la Contessa padrona di casa, di un processo per delitti mai commessi o del tutto insensati, insinuandosi nelle crepe delle espressioni formalizzate – una rima fuori posto, una contraddizione… – degli ospiti poi inquisitori; quando la situazione torna sorprendentemente al punto di partenza, la voluta ambiguità tra il “come se nulla fosse stato” e un’irrecuperabili iato resta. Chailly enfatizza il tutto impeccabilmente con un ductus scabro, che massimizza i contrasti tra isolamento dei timbri e loro sintesi incisiva, nello strumentale, e tra stile parlante e deformazione espressionista, nel vocale.
La regia di Giorgio Bongiovanni è improntata a un’essenzialità efficacissima: gli elementi sceno-costumistici (curati da Andrea Stanisci e Clelia De Angelis) sono minimi ma caratterizzanti, sia per la trasformazione da salotto a tribunale in Chailly, sia per l’ambientazione – in La Smorfia – in una farmacia i cui pianali somigliano ‘stranamente’ a un tabellone da tombola, tanto da incitare il farmacista cronicamente perdente al lotto a un tiro a segno su di essi. Anche le azioni, in Procedura penale, sviluppano quella contraddizione paradossale che conduce all’inferno: lo spazio oltre al proscenio salverebbe l’accusata (è là che la Contessa raccatta faticosamente prove della sua innocenza), ma l’incubo prosegue aggravandosi, con tanto di sorelle citanti le gemelle-fantasma in Shining, le cui teste ingegnosamente si trasformano in piatti della bilancia.
Ragguardevole la prova, anche sul piano attoriale, dei giovani cantanti impegnati: una speciale nota di merito va al tenore Paolo Mascari, che ha dovuto sostenere – per assenza di rotazioni – i ruoli del giovane amoroso ma polemico, in La smorfia, e del dottor Polcevera, in Procedura penale, con lodevoli solidità e differenziazione drammatica (è proprio Polcevera a innescare il perfido scivolare in un processo). Il ruolo cruciale del farmacista Astronio, in Bettinelli, ha avuto degnissimo interprete in Andrea Ariano, coniugante – senza appesantirli – gli aspetti sia vocali sia teatrali della sua ‘macchietta’; affiatato e ben sbalzato il salace terzetto dei chiassosi amici di Astronio (Marco Gazzini, Federico Vita, Nicola Di Filippo); riuscitissimo il personaggio della figlia Vanda di Eleonora Benetti, voce piccola ma ben controllata, sicura nell’emissione e intonata pur con un vibrato contenutissimo, perfetta nel tratteggiare l’oscillazione tra iniziativa amorosa e preoccupato affetto filiale. In Chailly, inappuntabile la resa di Chiara Latini come Donna Titti (il personaggio più nonsensical), del mezzosoprano Francesca Lione – per di più gravata di abbondante costume – come sentenziosa Paola Isoscele, delle sempre precise gemelle unisone di Chiara Guerra e Viktoriia Balan, dello stagliato Giandomenico di Alberto Petricca, un baritono ora amabile ora severamente incalzante nell’alimentare le accuse quale giudice-capo. La riuscita collettiva del cast è stata coronata nella notevole Contessa del soprano Giorgia Costantino: tra comportamenti vocali differenziati e caratterizzati al meglio (le lunghe frasi prosastiche non accompagnate son suonate profeticamente sciarriniane), e funzione drammatica centrale sia da padrona sia da succube della situazione, la sua interpretazione ha rivelato doti già interamente professionali, e con ulteriori prospettive di crescita.
Molti pregi del cast non sarebbero certo emersi senza l’esperta, penetrante e trascinante guida di Marco Angius: al di là della padronanza tecnica, la consuetudine e lo scavo di pensiero che Angius proietta nella direzione della musica dell’ultimo secolo sono in grado di farvi emergere tutti i valori intrinseci insieme alle intuizioni prospettiche e alle radici. Il direttore ha ottenuto il massimo pure dagli strumentisti dell’Ensemble Calamani, in un’esecuzione positiva e benaugurante per la collaborazione partita quest’anno col Lirico Sperimentale. Pubblico visibilmente convinto e applausi entusiasti per tutti.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln