Liszt, Wagner e Beethoven per Bellucci
Il pianista per la rassegna Landscapes della Fondazione Benetton
Virtuoso nell’accezione tardo ottocentesca e più nobile del termine, Giovanni Bellucci offre alla Fondazione Benetton di Treviso un programma fuori dall’ordinario per ampiezza di prospettive, durata, scavo storico-musicale, di cui egli stesso si fa latore con dovizia di dettagli prima di appoggiare le mani sul pianoforte. Virtuosismo come conseguenza della complessità: poliedrica e diversa. Quindi Liszt, Wagner (trascritto dal primo), ancora Liszt e Beethoven, in un’eterna ghirlanda brillante che s’illumina a vicenda. La Fantasia e fuga sul nome BACH (1877), inizialmente concepita per organo, è una sorta di incontro postumo fra titani: Liszt qui “parla” davvero tedesco e lo fa di fronte a Bach. Del tema si bemolle-la-do-si Liszt chiede all’interprete di esplorare tutte possibilità armoniche e melodiche, insistendo sul cromatismo (quasi anticipando la serialità); Bellucci lo rende attraverso sia la possanza quasi narcotica del suono sia facendo leva sull’aspetto seducente del virtuosismo listziano. Con la Leggenda di San Francesco di Paola che cammina sulle onde l’interprete fa vestire a Liszt i panni di un retore di alto livello, ma fanciullo: come Gesù di fronte ai Dottori. Qui il pianismo è innocente e senza sforzo, ma implacabile, trascinante, plasticamente scolpito, specie nei passaggi che mimano l’acqua che scorre sotto ai piedi del santo.
In Tristano e Isotta quella scintilla che dal loro amore transumano accese l’inconscio, privato e collettivo, brilla sulla tastiera di Bellucci senza concessioni alla retorica, incalzante, chiarendone lo stretto intreccio polifonico: Tristano e Isotta, trasfigurati da Liszt in puro suono e indissolubilmente intrecciati , l’una senza l’altro inconcepibili - ancor più evidente senza la voce -, putrido della morte e chiarore della vita. La melodia cristallina, la più pura possibile, di Isotta sembra librarsi già verso Dio (assente dalla partitura e sporgente da un bassorilievo sull’altare/palcoscenico della chiesa sconsacrata di San Teonisto, acquisita dai Benetton e restaurata da Tobia Scarpa), protesa verso l’infinito che questo pianismo mima. Più patinato - e messo qui musicalmente a contrasto, perché il soggetto è lo stesso - il terzo Sogno d’amore, memore di quel pianismo brillante francese: altra declinazione del sentimento per Liszt, altro genere di virtuosismo. Par di vedere Marie d’Agoult con le trecce morbide sull’affannoso petto. Amplissime dinamiche, grandi contrasti, chiaroscuri drammatici dominano la Fantasia quasi Sonata “dopo una lettura di Dante” (Liszt era nel mezzo del cammin), resa con la maturità di chi si confronta sulla tastiera con le grandi domande della vita e poi distilla la sapienza per sottrazione, togliendo, e ancora togliendo. Resta, alla fine, solo la sostanza: come se Dante fosse guardato, inteso con l’occhio e l’orecchio interiore.
Simile approccio interiore all’Hammerklavier e l’invito a tornar sempre a Beethoven per capire meglio retrospettivamente le generazioni successive è condivisibile. Della Sonata in Si bemolle maggiore colpisce il chiaro (ardito, come noto) profilo architettonico: in un diverso e distintivo modo di affondo alla tastiera, la violenza e la voluntas di Beethoven (quando la partitura lo richiede), non suonano simili all’impetuosità di Liszt; e questa differenza è ben chiara. Così com’è netto il desiderio d’intendere Beethoven quale protoromantico. E funziona. Se per Beethoven esiste un Dio, Bellucci ci conduce là per mano, senza cercare vie facili, senza smussarne le asperità, senza compromessi. Umano, troppo umano.
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