L’opera al tempo dei selfie

Un nuovo, rutilante allestimento di Ariadne auf Naxos di Strauss curato da Paul Curran debutta a Bologna

Ariadne auf Naxos (Foto Margherita Caprilli)
Ariadne auf Naxos (Foto Margherita Caprilli)
Recensione
classica
Teatro Comunale di Bologna
Ariadne auf Naxos
20 Marzo 2022 - 27 Marzo 2022

Ariadne auf Naxos, ora allestita al Teatro Comunale di Bologna (in coproduzione con il Teatro La Fenice di Venezia e il Teatro Massimo di Palermo), è una meraviglia di metateatro: scritta nel primo Novecento ma ambientata due secoli prima, vede confrontarsi in una villa privata due compagnie di artisti, gli uni di opera seria, gli altri buffi, i quali devono mettere in scena rispettivamente un’opera intitolata Arianna e un intermezzo comico. Strauss e Hofmannsthal infarciscono la trama di querelle artistiche e mettono in bocca ai personaggi temi che da sempre hanno interessato il mondo dell’opera: il ruolo di tale spettacolo e la dicotomia aulico/comico. Tale duplicità è costantemente sottolineata dalla scrittura musicale di Strauss che attraversa registri e stili, un alternarsi non semplice da rendere, ma ben orchestrato dalla maestria di Juraj Valčuha in testa all’Orchestra del Teatro Comunale. Il regista Paul Curran trasforma l’originaria querelle tra serio e buffo in un dialogo tra antico e nuovo, tra passatismo e modernità, e mette in scena una diatriba musicale tra il nuovo pop e l’antica opera lirica. Tutto il prologo dell’opera si sviluppa in questo senso, tra un compositore classico (Victoria Karkacheva) che vorrebbe preservare il suo stile musicale dall’innovazione, il suo maestro di musica (Marcus Werba) che cerca la mediazione con il maggiordomo (Franz Tscherne), portavoce del committente,  e altri tipici personaggi che affollano le quinte di uno spettacolo (il maestro di ballo, Cristiano Olivieri; un parrucchiere, Riccardo Fioratti; un lacché, Maurizio Leoni; un ufficiale galante, Paolo Antognetti). L’apparato visivo è abbacinante, vivace, colorato ma soprattutto ben congegnato: le scene e i costumi di Gary McCann non sono solo bellissimi, ma intelligentissimi – complice la curata illuminazione di Howard Hudson – nel non far perdere mai di vista il gioco del teatro dentro al teatro.

La duplicità nuovo/antico è sintetizzata poi nei personaggi delle due cantanti, l’una una bistrattata primadonna della lirica, l’altra un’acclamata icona pop. Dorotea Röschmann (nei panni della Prima donna/Arianna) è perfetta interprete della diva d’altri tempi, sia per portamento e naturale inclinazione, sia per la sua vocalità spiegata (a tratti all’eccesso), sia nel mettere in scena il tradizionale grande duetto romantico con il primo uomo/Bacco (Daniel Kirch). Tutto quel mondo che incarna le si sgretola intorno repentinamente: le viene portata via la scenografia mentre canta, tanto che deve disperatamente aggrapparsi ai pezzi, fino al divanetto di scena rococò che ghermisce come ultimo simbolo del suo status. Olga Pudova nei panni di Zerbinetta è una cantante pop i cui modi frizzanti piacciono tanto quanto le agilità frenetiche della sua aria a rondò. Questi fanno da contraltare alle arie drammatiche della collega, così come i quattro artisti da varietà televisiva che circondano Zerbinetta (Tommaso Barea, Mathias Frey, Vladimir Sazdovsky e Carlo Natale) si distanziano dalle rigide ninfe barocche che accompagnano l’altra (Nofar Yacobi, Adriana di Paola, Chiara Notarnicola).

Nonostante l’allestimento estremizzi il continuo confronto tra gli stili espressivi delle due, fa emergere anche la bellezza della rispettiva musica: la lirica potrà anche sembrare un linguaggio musicale e teatrale d’altri tempi, tuttavia non smette di parlare alla sensibilità contemporanea, a patto che l’ascoltatore abbia il coraggio di adattare il proprio passo a quello di un linguaggio diverso da quello a cui la società oggi abitua, e che rallenti dalla frenesia, brevità, immediatezza dei contenuti invece tipici dell’indubbiamente più semplice intrattenimento offerto da tecnologie innovative e da piattaforme digitali. E così, come le due cantanti finiranno per coesistere, ognuna con la propria arte, allo stesso modo l’idea registica di Curran fa riflettere su quanto due mondi espressivi apparentemente lontani possano convivere, e su quanto ognuno sia da rispettare per le proprie insite caratteristiche.

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