Messiaen da vedere
Un recital in solo di Ciro Longobardi per Aperto Festival percorre l'opera pianistica di Olivier Messiaen
Musiche da vedere, immagini da ascoltare. Così Roberto Fabbi, direttore artistico del Festival Aperto, nel programma di sala di Messiaen Piano, il recital di Ciro Longobardi dedicato al compositore avignonese andato in scena sul palcoscenico del Teatro Valli di Reggio Emilia.
– Leggi anche: Gli uccelli di Messiaen secondo Ciro Longobardi
Il colpo d'occhio, con il pubblico e l'artista sul palco ed il teatro, vuoto, a rispecchiarsi negli occhi dei presenti, già evoca un inizio, o una fine. E ha proprio questo carattere iniziatico eppure conclusivo, diremmo liminale la musica di Olivier Messiaen: densa e lieve al tempo stesso, articolata eppure fluida, sorprendente e rigorosa, ambigua ed esatta. «Avevo vent'anni. Non avevo ancora intrapreso le ricerche ritmiche che avrebbero trasformato la mia vita. Amavo appassionatamente gli uccelli, senza ancor saper annotare i loro canti. Ma ero già un musicista del suono-colore. I titoli nascondono studi sui colori».
Illuminanti e misteriose le note agli otto Preludi che aprono il concerto. I colori invisibili e la quarta dimensione teorizzata da Duchamp in pittura popolano anche gli universi mobili che si dischiudono alle nostre orecchie. Da un carillon su specchi nascosti nella neve si scivola in un vuoto senza paesaggio, poi cluster di accordi convocano creature della tempesta, divinità, e tutto suona come una fitta serie di appunti a margine di un atto primordiale.
Assistiamo ad una nascita: il suono viene alla luce dotato di un nitore e di una grazia enigmatici, come un codice segreto intraducibile con l'analisi ma percepibile attraverso i sensi: il suono di un sogno, o di un risveglio. Ombre di Oriente, comete che annunciano il jazz, fugaci nevrosi quasi ragtime: noi oggi lo sappiamo, il futuro non è più quello di una volta, ma la qualità profetica, metamorfica della musica di Messiaen resta intatta.
Un altro lato di questo prisma che pare infinito ci viene mostrato con "Fantasie Burlesque", una sorta di balletto su una nave che affonda, con un finale una tantum canonico, non sospeso nel vuoto, non interrogativo.
Con la "Pièce pour Le Tombeau de Paul Dukas" subito invece fioriscono domande gravide di ruggini e un vago senso di minaccia. In "Rondeau" una rapida fuga di stormi che sparisce alla vista, improvvisa come un temporale estivo, quasi uno scherzo. "Cantéyodaya", basata su ritmi indù, ha un incipit che fa pensare a Cecil Taylor, poi si alza un vento dal nord: una pulsazione libera e mobile a guidare un discorso in apparenza privo di un focus e tutto proiettato nel mostrare la sua natura di organismo, quasi fosse privo di sintassi e dotato di sangue.
Come un animale, forse mitologico, sfugge, si nasconde, si apposta, salta, cambia colore, e camaleontico sorprende e fa sussultare chi ascolta. In chiusura i "Quattro studi sul ritmo": un libero vagare di frammenti in uno spazio armonico senza gravità, eruzioni di lapilli sulla pagina affollata di segni, come oceani che l'interprete attraversa con perfetta navigazione.
Se, con Debussy «La verità è che la vera musica non è mai difficile», il plauso va a Ciro Longobardi, capace di restituire magistralmente tutto lo spettro di suggestioni che queste musiche offrono, dimostrando di vivere e abitare la visione di Messiaen, oggetto di un'esplorazione, (attraverso la realizzazione dell'integrale della sua musica pianistica – è da poco uscito per Piano Classics un doppio cd – e una serie di concerti) che si concluderà nel 2022, nel trentennale della scomparsa dell'autore, una delle voci più imprendibili ed importanti del XX secolo.
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