Aroldo torna a casa

Il rinato Teatro Galli di Rimini presenta la sua prima produzione operistica, recuperando il melodrammone che Verdi scrisse per l’inaugurazione del 1857

Aroldo (Foto  Elena Morosetti)
Aroldo (Foto  Elena Morosetti)
Recensione
classica
Rimini, Teatro Galli
Aroldo
27 Agosto 2021 - 29 Agosto 2021

Senza esagerare, quella del 27 agosto 2021 può ben essere definita una data storica per Rimini, con una storia alle spalle di lunga gittata. Nel 1857 la città si era dotata di un nuovo teatro e per l’inaugurazione si pensò in grande: ottenere da Verdi un’opera espressamente composta. Dal canto suo, Verdi stava cercando un teatro di secondo livello per dare una nuova possibilità di vita al suo Stiffelio, e il progetto andò così in porto, rielaborando massicciamente la vecchia partitura in qualcosa di nuovo: Aroldo. Si organizzò la stagione per l’estate, quando i turisti già accorrevano in città attratti dai primi stabilimenti balneari. Aroldo non fu di fatto il titolo inaugurale del Teatro Nuovo di Rimini, preceduto di un mese da Il trovatore e da Lucrezia Borgia, ma la data del 16 agosto 1857 entrò negli annali del melodramma per il debutto di un’opera verdiana.

Sotto il nuovo nome di Teatro Vittorio Emanuele II, la sala resterà seriamente danneggiata da un bombardamento degli Alleati che nel 1943 colpisce platea e palcoscenico, ma non la nobile facciata sulla piazza principale. Nel dopoguerra, l’edificio verrà subito reintitolato al riminese Amintore Galli (antesignano dei musicologi italiani e autore fra l’altro dell’Inno dei lavoratori su testo di Filippo Turati), ma la ricostruzione secondo i disegni originali è continuamente rimandata, per oltre 70 anni. Nel 2015 s’inaugura finalmente il foyer restaurato con una conferenza-concerto su Aroldo e nel 2018 la quasi riminese Cecilia Bartoli tiene a battesimo la sala ricostruita con una formidabile esecuzione semiscenica della Cenerentola. A chiudere il cerchio mancava però ancora il ritorno scenico di quell’Aroldo di rarissima esecuzione, strettamente legato alla nascita del teatro.

Ed eccolo, alfine! L’ideazione dello spettacolo è affidata a un musicologo con esperienze di drammaturgo, il riminese Emilio Sala, coadiuvato da Edoardo Sanchi, Isa Traversi, Giulia Bruschi, Elisa Serpilli, Raffaella Giraldi, Nevio Cavina e Matteo Castiglioni per regia, scene, costumi, luci e proiezioni. L’idea portante di Sala è stata calare la vicenda favolistica dell’opera in quella storica del teatro e della sua città. Aroldo non è quindi più un cavaliere scozzese di ritorno dalle crociate, ma un soldato italiano che nel 1936 rientra sconvolto dalla Guerra d’Etiopia: voci e filmati dell’epoca invadono lo spettacolo nei momenti di cerniera del dramma, fino alla tempesta musicale del IV Atto che diviene la sonorizzazione del bombardamento di Rimini; il teatro stesso è messo al centro della vicenda, con le immagini della sala distrutta, il suo sipario dipinto recuperato dalle macerie, lo splendore attuale esibito nell’apoteosi finale.

Ogni aspetto della rilettura funziona perfettamente fin dall’inizio: lo struggente assolo di tromba della Sinfonia iniziale non poteva meglio accoppiarsi alle immagini terribili della carneficina italiana in Abissinia, come un silenzio militare “fuori ordinanza”, e la retorica verbale e sonora di uno fra i più melodrammatici melodrammoni verdiani diviene il perfetto registro espressivo dell’ampollosità fascista esibita in scena, dove tutto è costantemente esposto all’ennesima, esagerata potenza, compresi i sentimenti personali divenuti esibizione pubblica.

Se questa ennesima trasposizione geografica e cronologica non produce la solita discrasia fra quanto vediamo e quanto udiamo, con la quale i cosiddetti “grandi” registi ci affliggono tristemente da troppi anni, lo si deve anche all’attuazione di piccoli ma sacrosanti accorgimenti. Innanzitutto viene offerta chiaramente al pubblico la chiave di lettura della nuova drammaturgia, non nascosta fra le pieghe di una sibillina nota di regia stampata in fondo al programma di sala, ma esposta pubblicamente a inizio spettacolo (nella fattispecie, attraverso sobrie “istruzioni per l’uso” affidate all’attore Ivano Marescotti). Poi – operazione fondamentale – il testo del libretto viene adattato alla nuova drammaturgia fin dalla locandina dei personaggi, presentati per quelli che saranno concretamente in scena (e non che furono per Verdi e Piave), con parchi aggiustamenti dei dialoghi ogni volta che le parole originali non si adattano più alle nuove situazioni: una soluzione attuata da tempo nel teatro di prosa, ma solitamente respinta nell’opera da registi, direttori d’orchestra e cantanti in nome di una ipocrita “fedeltà al testo”, dopo che tutto quanto riguarda le prescrizioni visive (ambientazione, costumi, didascalie, gestualità, ecc.) è stato per contro bellamente stravolto. Da ultimo, lo spettacolo funziona perché sono messe in campo due virtù sempre più rare negli attuali registi iconoclasti e autoreferenziali: la capacità di sostenere con coerenza la nuova idea narrativa oltre il decimo minuto di spettacolo e una sensibilità drammaturgica basata sulla musica prima ancora che sulla parola.

Onore al direttore d’orchestra Manlio Benzi, pur esso riminese, che ha assecondato tale operazione con devozione totale a una partitura certamente minore del catalogo verdiano, ma presentataci senza timidezze, per quello che è, nella sua integrità, con i suoi eccessi talvolta grotteschi, con le sue debolezze anche evidenti, nella consapevolezza di rendere un servizio a un recupero culturalmente importante.

Sulla scena, il protagonista Antonio Corianò esibisce una voce tenorile di rara bellezza nella tessitura centrale, ma perdura in troppe incertezze nella zona acuta; Lidia Fridman è voce di soprano tagliente che affronta con spavalderia l’ultima eroina belcantista del catalogo verdiano; Michele Govi è il più centrato rispetto alle richieste della parte, nel migliore spirito baritonale; Adriano Gramigni, basso, riesce a concretizzare un personaggio appena abbozzato in partitura.

Da Piacenza arrivavano la collaudatissima Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” e un Coro del Teatro Municipale in gran forma, cui va uno speciale plauso per la perfetta intonazione (cominciando dal lungo passo a cappella che apre l’opera) e la perfezione ritmica esibita sotto la guida di Corrado Casati.

Dopo le due recite riminesi, questa prima produzione autoctona del Teatro Galli verrà opportunamente ripresa nelle stagioni dei “teatri di tradizione” dell’Emilia-Romagna. Ed ora che tutti i conti con il passato sono stati fatti, non resta alla rinata istituzione riminese che guardare a un rigoglioso futuro.

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