#Beethoven250: Beethoven secondo il Quartetto di Venezia 

Una conversazione con Andrea Vio, primo violino del Quartetto di Venezia, sull’integrale dei quartetti beethoveniani

Quartetto di Venezia
Quartetto di Venezia (foto von Hoch)
Articolo
classica

Più ancora che nelle sue sinfonie, la voce più autentica di Beethoven si può forse cogliere nei suoi quartetti. Una ventina scarsa di composizioni solitamente divisa in cinque fasi che nell’arco di 25 anni attraversano tutte le stagioni creative del compositore: da quelli giovanili dell’Opus 18 composti per il Principe Lobkowitz, la sua consacrazione nella Vienna imperiale, fino agli ultimi, sorprendenti per libertà di un linguaggio espressivo, che proietta una lunga ombra fino alla modernità. Dopo aver ascoltato il Quartetto op. 131, Berlioz scrisse: «Egli è salito così in alto che il respiro comincia a mancare. È musica per lui solo e per coloro che hanno seguito l’inconcepibile ascesa del suo genio». Quell’ascesa al genio beethoveniano ha deciso di intraprenderla il Quartetto di Venezia nell’anno del duecentocinquatenario. Un’ascesa in sei tappe attraverso tutta la produzione quartettistica di Beethoven proposta nell’Auditorium “Lo Squero” nella veneziana Isola di San Giorgio all’interno della stagione da camera della Fondazione “Giorgio Cini" e di Asolo Musica e inserito nell’ambito degli eventi promossi dall’Associazione Piero Farulli - Farulli 100. 

Il quartetto d’archi come scuola di democrazia 

Dopo la prima tappa dello scorso 1 febbraio, l’ascesa purtroppo è stata sospesa a causa dell’emergenza da coronavirus. Aspettando che il virus passi, abbiamo conversato con Andrea Vio, primo violino del Quartetto di Venezia, sul progetto, su Beethoven e su come trascorrere queste giornate in compagnia di buona musica. 

Quartetto di Venezia

L’integrale dei quartetti di Beethoven è quasi come un viaggio attraverso la storia: la storia di una grande personalità musicale oltre che di una evoluzione decisiva del genere. Cosa rappresenta per il Quartetto di Venezia questa avventura lunga una stagione? 

«Per un quartetto l’esecuzione dell’integrale beethoveniana vuol dire raggiungere un obiettivo particolarmente significativo che non può prescindere da una maturità tecnica e musicale alla quale si arriva solamente dopo molti anni di studio e attività concertistica. Naturalmente non è la prima volta che il Quartetto di Venezia affronta questo impegno che, comunque, è sempre come una prima volta: lo studio dovuto a un progetto così importante non cambia mai. Le nostre prove – quotidiane prima dell’emergenza – devono portare a una massima consapevolezza tecnico-musicale, soprattutto nel momento in cui si vuole ricercare una esecuzione curata al massimo, nei più piccoli particolari, e che porti l’esecutore ad avere la massima confidenza con la propria parte e con l’ensemble». 

«Per un quartetto l’esecuzione dell’integrale beethoveniana vuol dire raggiungere un obiettivo particolarmente significativo che non può prescindere da una maturità tecnica e musicale alla quale si arriva solamente dopo molti anni di studio e attività concertistica».

Il genere quartetto attraversa tutta la parabola creativa beethoveniana. Dal punto di vista dell’interpretazione, c’è qualche differenza nell’affrontare i diversi quartetti? Oppure il metodo di lavoro resta lo stesso? 

«Ovviamente sì. Non solo nelle diverse fasi, come da lei indicato, ma nelle singole opere così diverse tra di loro. Pensiamo ai sei dell’Op. 18: ognuno di questi ha delle caratteristiche musicali diverse uno dall’altro. Direi però che in ogni suo periodo compositivo esistono molte differenze. In Beethoven, più che in altri autori, ogni opera è un mondo a sé. Certamente il metodo di lavoro è sempre lo stesso; quello che diversifica la risposta dell’esecutore sta nell’opera stessa che offre spunti musicali sempre diversi e quindi con una risposta esecutiva conseguente e personale». 

«In Beethoven, più che in altri autori, ogni opera è un mondo a sé».

Quali sono le difficoltà che pongono all’interprete i lavori composti in ognuna di queste fasi? 

«Difficoltà è una parola eccessiva: certamente vi è un impegno individuale nell’entrare in un mondo che nulla ha a che vedere con altri autori, non solo sotto l’aspetto tecnico/musicale ma anche e soprattutto spazio-temporale. È difficile far capire a parole un concetto così intimo: entrando in questo vortice di emozioni si perde la cognizione della realtà (non prendetemi per pazzo!)». 

Come si trova il suono “più giusto”? 

«Esiste un suono giusto, beethoveniano? Non credo. Penso invece che, come è sempre stato, l’interprete ha un suo suono che può essere più adeguato nell’esecuzione di un certo repertorio e, come sempre, sta nell’ascoltatore e nel suo personale gusto, scegliere: a me piace questo, a me piace di più l’altro eccetera. E, a mio avviso, è proprio questo il bello della musica: l’interprete interpreta!». 

Nella ciclo allo Squero non seguite un ordine cronologico ma piuttosto accostate i quartetti composti in tempi molto lontani: perché questa scelta? 

«Seguire cronologicamente l’ordine di esecuzione dei quartetti beethoveniani non è la soluzione migliore. “Mescolare” quartetti scritti in periodi diversi, invece, sottolinea in modo decisamente più interessante l’evoluzione stilistica dell’opera stessa. L’accostamento da noi pensato parte anche da considerazioni molto pratiche, cioè tiene anche in considerazione, e non si può farne a meno, del minutaggio totale di ogni singolo concerto. Bisogna anche tenere in considerazione che non tutto il pubblico avrà la possibilità di seguire tutti i sei concerti per cui, ogni concerto deve essere pensato come fosse un unico recital».

Nel secondo concerto avevate inserito la Grande Fuga, una composizione a lungo considerata un pezzo teorico e dunque raramente proposto nei programmi concertistici almeno fino al Novecento. Igor Stravinskij lo descrisse come "un pezzo musicale assolutamente contemporaneo, che sarà contemporaneo per sempre". Il Quartetto di Venezia lo ha inserito naturalmente nell’integrale: qual è la sua importanza nella produzione beethoveniana? 

«Se devo essere sincero, la preferisco inserita come finale dell’Opus 130. Abbiamo avuto il privilegio di suonarla in questo forma e alla fine dell’esecuzione di una lunghezza “divina”, il pubblico (e anche noi) rimane quasi paralizzato, ipnotizzato, immobile, stravolto e vinto da una emozione incontrollabile. La grandezza potente di un’opera così monumentale, cioè l’Opus 130 con la Grande Fuga, non ha eguali nella musica. Purtroppo, in una integrale, la Grande Fuga non si può inserire nell'Opus 130 che, come sappiamo, ha un nuovo e più “leggero” finale. Presa singolarmente, rimane comunque un lavoro estremamente affascinante e complesso. È avanti, molto avanti … Difficilissima da comprendere da parte del pubblico e, devo dire, in parte anche degli esecutori. Questo brano è di fatto un trait d’union con il Novecento, come un po’ tutte le ultime opere beethoveniane». 

 

Parlando dei quartetti di Beethoven, esistono dei modelli esecutivi o dei riferimenti importanti per il Quartetto di Venezia? 

«Senza dubbio il Quartetto Vegh è per noi il punto di riferimento principale. Ovviamente avendo avuto come maestri Sandor Vegh e Paul Szabo siamo stati “instradati” verso un modo di interpretare Beethoven con quelle caratteristiche tecnico/musicali che abbiamo cercato di fare nostre». 

A suo avviso in cosa si vede la “firma" del Quartetto di Venezia in questo Beethoven integrale? 

«È una domanda da rivolgere piuttosto a chi ci ascolta … Il nostro lavoro si basa sulla ricerca della chiarezza esecutiva, la cura dei particolari, la tavolozza di colori la più ricca possibile, il fraseggio, il respiro musicale, l’accento, l’articolazione dell’arco, eccetera. Ma la firma più importante credo sia il gusto personale, l’interpretazione personale, la musicalità personale, l’espressività personale. Un interprete ha il dovere di esprimere le proprie emozioni musicali senza se e senza ma, ed è proprio questo che lo contraddistingue da tutti gli altri. Vegh amava dire: “L'intelletto esiste per integrare le nostre idee intuitive”». 

Beethoven non è certo un autore trascurato nella programmazione delle sale da concerto: non se ne fa troppo per questo suo compleanno numero 250? 

«Al contrario: bisognerebbe farne molto di più!».

In questi tempi di segregazione domestica a causa dell’epidemia, ha dei consigli di ascolto per i lettori del gdm in attesa di poter tornare a godere della musica nelle sale da concerto? 

«Molto difficile suggerire cosa ascoltare poiché de gustibus non disputandum est. Personalmente amo ascoltare la musica sinfonica di tutti i tipi. Ad esempio, ascolto la Sinfonia dei Mille di Mahler, la Leningrado di Šostakóvič, le sinfonie di Beethoven, quel capolavoro che è il Requiem di Gabriel Fauré o il Deutsches Requiem di Brahms e altro. Mi piace anche ascoltare la musica pianistica come le tre Sonate D 958, 959, 960 di Schubert (magari nell’esecuzione di Claudio Arrau, che è un interprete fantastico), le ultime Sonate di Beethoven. Solo per fare qualche esempio, ma c’è un mare di bella musica da ascoltare e poi, come dico spesso ai miei allievi, abbiamo la fortuna oggigiorno di attingere a piene mani da un tesoro che abbiamo a disposizione gratis, basta entrare su YouTube».

Questa vostra stagione nella “casa” dell'Auditorium Lo Squero è dedicata alla memoria di Piero Farulli, di cui quest’anno si ricorda il centenario dalla nascitaUn vostro ricordo personale? Cosa gli deve il Quartetto di Venezia? 

«Il Maestro Farulli è stato per noi un punto di riferimento molto importante. La spinta che ci ha dato negli anni della Chigiana nell’affrontare da subito le opere più importanti di Beethoven è stata decisiva. Per lui Beethoven era fondamentale. Una delle sue ambizioni più grandi era quello di far conoscere queste opere a tutti, in modo quasi “popolare” (nel senso buono, ovviamente). In quegli anni faceva suonare gli allievi in posti assolutamente impensabili: una volta abbiamo suonato in una specie di grotta… A volte, la gente si portava le sedie da casa. E non suonavamo brani “facili” per persone non abituate a questo tipo di musica, ma proprio gli ultimi quartetti di Beethoven. Farulli diceva: “Devono ascoltare queste opere così profonde, per capire e conoscere quello che non hanno mai avuto modo di ascoltare. Ci sarà chi verrà colpito ed emozionato di più e chi di meno, ma bisogna diffondere la cultura musicale, anche quella più impegnativa”. Da questo modo di proporre la musica “colta” si comprende molto bene la sua più famosa frase: “La musica, un bene da restituire”». 

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