Don Pasquale al Casinò

Firenze: non convince la regia di Andrea Bernard

Don Pasquale (Foto Michele Monasta)
Don Pasquale (Foto Michele Monasta)
Recensione
classica
Teatro del Maggio Musicale, Firenze
Don Pasquale
21 Febbraio 2020 - 04 Marzo 2020

Don Pasquale è tornato venerdì a Firenze, al Teatro del Maggio Musicale, ma non è più lui. E’  diventato il proprietario di un casinò di vago modernariato, con tavoli da gioco, slot machines e tanto di peep show annesso, dove in vetrina c’è anche Norina. Perché ? Al regista Andrea Bernard, che firma questo nuovo allestimento con le scene e i costumi di Alberto Beltrame e Elena Beccaro, la storia di Don Pasquale fa pensare, scrive, a un caper movie, termine tecnico – apprendiamo - designante i film sul colpo grosso, come Ocean’s Eleven o I soliti sospetti.  Troppo onore per l’innocua storiella borghese di un burbero rentier nullafacente, di amori osteggiati, astuzie maschili e femminili, e servitù che commenta il tutto. Una vicenda che nella sua tenuità, imbastita su millenarie trame di commedia, a Donizetti basta per dar vita ad una delle sue partiture più abili e maliose. Già, partitura, la parola chiave, ed è sciocco negarne le evidenze per cercare chissà cosa. E così abbiamo un Ernesto mezzo idiota che compulsivamente gratta-e-non-vince, e altre amenità, nel solito subisso – oramai regolarmente propinato a Firenze – di controscene e figuranti, giocatori, clienti infoiati davanti al peep show, camerieri, entraineuses, ballerinette, che si agitano un sacco, per non dire dell’oramai molto abusato profluvio di video per sottolineare i sentimenti dei personaggi. Poi, a un certo momento, tutti  fermi ad ascoltare la serenata di Ernesto, ed è una scena riuscita, perché qui il primo ad ascoltare la musica è stato il regista. Alti e bassi anche sotto l’aspetto musicale. La direzione di Antonino Fogliani ci è sembrata centrare complessivamente bene la miscela di comicità e patetismo del capolavoro donizettiano, in una visione accurata, più portata alle rotondità e alle mezze tinte che alla brillantezza, che l’orchestra ha assecondato solo in parte, e resta il problema di fondo di una struttura teatrale ottima per l’orchestra ma punitiva per i cantanti, arretrati dietro l’immensa buca, e allora, o hanno voci grandi, e non era il caso,  o non li si sente bene.  Qui poi c’era, per Ernesto, Maxim Mironov, un tenore contraltino garbato e di bel fraseggio, che però dovrebbe tenersi ben stretto a Rossini senza azzardarsi per ora in lontana terra con Ernesto. Davide Luciano era un Malatesta molto efficiente scenicamente e musicalmente ma anche lui di gusto un po’ rossineggiante (in Donizetti c’è forse qualcosa di più sanguigno e più bisognoso di impasti comici meno astratti). Marina Monzò era una Norina dagli acuti puntuti che possono piacere o meno ma di buona tempra vocale e scenica, Nicola Ulivieri era un Don Pasquale forse non del tutto appropriato vocalmente per qualche sfocatura in basso, ma scenicamente incisivo.  Applausi non più che cortesi – tifoserie a parte – per la musica, nette contestazioni per la messinscena, repliche 26 e 29 febbraio, 4 marzo. 

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