Si avvicina l’inizio del Torino Jazz Festival 2018 (dal 23 al 30 aprile, in varie sedi) e molte sono le curiosità di pubblico e addetti ai lavori per il “vestito nuovo” di questo appuntamento, ora affidato alla curatela di Giorgio Li Calzi con la collaborazione di Diego Borotti (anche se a prima vista non ci sembra che l’impianto sia in fondo così dissimile – fatte salve alcune differenze – da quello delle edizioni curate da Stefano Zenni. Per un riassunto delle puntate precedenti – e delle polemiche – rimandiamo all'articolo di Jacopo Tomatis).
La cosa migliore è sempre quella di fare una chiacchierata – all’insegna della franchezza – con il direttore artistico, per capire, al di là del programma, le linee e le idee che sottostanno a una manifestazione di questa portata.
Ci siamo allora seduti con Giorgio Li Calzi per un confronto di grande apertura e intensità, in cui abbiamo chiacchierato di molti temi che riguardano il festival e non solo.
Inizierei la nostra chiacchierata un po’ dalla concezione di questo “nuovo” Festival di Torino. Si abbandonano i luoghi all’aperto (che qualche cruccio avevano portato in passato per il meteo e altro), si entra in Officine Grandi Riparazioni, insomma qual è la filosofia alla base dell’impianto del festival?
«Giusto partire dallo specifico: non fare i concerti all'aperto significa principalmente non buttare via i soldi. Anche senza essere meteorologi si può immaginare che è molto rischioso organizzare concerti all'aperto ad aprile, quindi pensando a quanto può costare un palco in una grande piazza e un servizio imponente di sicurezza oggi, dopo i fatti di Piazza San Carlo di giugno scorso a Torino (si tratta di 150mila euro più o meno), e sommando il prezzo di un artista mediatico più amplificazione, si arriva velocemente a 200mila euro che rischiano di essere buttati via per un improvviso acquazzone, e che equivalgono al un terzo del budget attuale del nostro festival».
È già successo…
«Sì, è proprio quello che successe nella prima edizione del Torino Jazz Festival al concerto di Carla Bley e Steve Swallow con la Torino Jazz Orchestra, funestata da un violento temporale già al primo pezzo, e che il mio collega Diego Borotti, con cui condivido ideazione e struttura del festival, ha pensato di riproporre in forma nuova (la Bley ha proposto nuovi arrangiamenti e organico). Poi, se da musicista devo dirti la mia, preferisco che il pubblico, specie le nuove generazioni, sappia che un concerto non è una cosa da regalare in piazza a un pubblico generico che alla fine si accontenterebbe di quasi tutto, ma credo sia meglio far capire che la musica ha un prezzo, esattamente come il pane, o come chiamare un idraulico o un avvocato».
I prezzi dei concerti mi sembrano comunque alla portata di tutte le tasche…
«Sì, sicuramente i prezzi devono essere accessibili, e tutto il gruppo che ha lavorato al festival è stato d'accordo a definire i prezzi dei concerti tra i 5€ (per gli eventi pomeridiani, come Melanie De Biasio, Ivo Papasov, Terje Rypdal, Franco D'Andrea Ottetto) e i 12€ per un doppio concerto alle Officine Grandi Riparazioni (da Archie Shepp a Nils Petter Molvaer, da Magic Malik a Riccardo Ruggieri con Gary Bartz)».
Scorrendo il programma mi colpisce la presenza di artisti tutto sommato non così presenti mediamente nei nostri grandi festival in confronto al loro nome, penso a Fred Hersh o ai Radian, ai Ceramic Dog di Marc Ribot o a Melanie De Biasio appunto. Come hai scelto i nomi in programma?
«Ti premetto che non amo molto il jazz, specialmente quello fatto da troppe convenzioni e quello che vuole dimostrare di saper suonare bene. Se ascolti Herbie Hancock non troverai mai esibizionismo in un suo assolo. Se ascolti Shirley Horn, una delle mie artiste preferite di sempre, a volte non senti neanche un assolo. Faccio fatica a comprare un album di un trombettista, o di un sassofonista o di un violinista. Non amo neanche la forma classica del concerto solista, cioè preferisco forme classiche legate più alla musica che non al solismo. Un ensemble che per me rappresenta un optimum sonoro, ad esempio, è il quartetto d'archi».
«Premetto che non amo molto il jazz, specialmente quello fatto da troppe convenzioni e quello che vuole dimostrare di saper suonare bene».
«Quindi le scelte degli artisti del festival partono sicuramente dai miei gusti personali, rivolti principalmente a tutto ciò che rende attuale e poco ortodosso il jazz, ma anche dal dialogo con Diego Borotti, che è molto più legato al jazz rispetto a me, con Franco Bergoglio, scrittore di jazz che segue il TJF dagli esordi, e con tutto il gruppo di lavoro con cui abbiamo discusso di strategie, immagine del festival e obiettivi, e dalle richieste di partenza dell'Assessora alla Cultura Comune Torino Francesca Leon (internazionalizzazione della città e dialogo con il territorio), insieme al gruppo politico che è molto presente nella realizzazione del festival».
Internazionalizzazione e dialogo, ne riparleremo tra poco, ma restando sul programma, c’è qualche nome su cui avevi puntato e non sei riuscito, per qualche motivo, a portare quest’anno a Torino?
«Sì, abbiamo avuto le defezioni di tre nomi molto noti del jazz internazionale. Alla fine, siamo molto contenti ugualmente di queste cancellazioni perché abbiamo riportato il festival a un carattere molto sobrio, legato principalmente all'essenza, alla sostanza del jazz, come recita il claim della comunicazione».
Come programmi in relazione al luogo in cui immagini il concerto? Pensi prima al luogo e a cosa possa funzionare o all’artista e poi alla location più adatta?
«Questa è un'ottima domanda: intanto la location è la prima cosa su cui ragionare, proprio per non collocare l'artista nel posto sbagliato: ho mentalmente rinunciato a chiamare molti dei miei artisti preferiti perché non credo avrebbero portato 1.400 spettatori alle Officine Grandi Riparazioni. Ma è anche importante non esagerare e non pensare a costruire cattedrali nel deserto, come ci insegna Claudio Merlo, direttore organizzativo del festival, da 40 anni alle prese con festival come Settembre Musica (l'odierno MiTo) e che sa fare il suo lavoro con una visione organizzativa globale e concreta ed estrema sobrietà, anche nell'uso delle risorse. In sintesi, sarebbe davvero uno spreco, se non è proprio indispensabile per il festival, pensare di fare un concerto che possa costare più di tanto in una sala ad esempio da 380 posti con un biglietto di ingresso da 5 euro (come i concerti pomeridiani al Piccolo Regio).
Un grande spazio è dato ai musicisti locali, elemento su cui – anche qui sul giornale della musica – c’è stato qualche rilievo critico. Al di là delle indicazioni politiche, come pensate, insieme a Diego Borotti, che la massiccia presenza di musicisti locali possa tradursi in risultati concreti di crescita del rapporto con il territorio?
«Come ho anticipato, personalmente ho una visione molto estetica, anche se legata alla sostanza, dell'arte e della musica. Ma appartenendo a una categoria che non ha assolutamente collocazione lavorativa, sono molto sensibile all'argomento. Quindi ti confesso che dapprima ero un po' scosso dall'idea di inserire musicisti torinesi che magari non avessero una visione simile alla mia. Ma poi ho considerato che intanto un direttore debba guardare il tutto con un certo distacco personale, e poi ho anche immaginato che questo grosso coinvolgimento può far crescere in tutti i sensi il territorio: il pubblico dei concerti, l'"aggiornamento professionale" dei musicisti (come lo definisce Diego) che non può che stimolare, il senso di appartenenza a una comunità di operatori, musicisti e pubblico, la possibilità per un musicista di produrre un nuovo progetto originale, l'idea di pagare i musicisti non al di sotto di certe cifre.... e intanto in questi mesi, in mezzo a tutti questi propositi, abbiamo iniziato a portare già a casa dei risultati: ad esempio l'aumento del sostegno al festival da parte degli sponsor, oppure la voglia di alcuni festival torinesi di collaborare con noi, o il desiderio dei club e circoli di fare concerti chiedendoci anche solo contenuti artistici. Insomma, alla fine sono soddisfatto di questo percorso, e il clima generale è molto buono».
Che tipo di pubblico ti attendi? Soprattutto che tipo di pubblico che abitualmente non segue il jazz credi possa essere invogliato a seguire il Festival e da cosa?
«Nonostante io ascolti musica sperimentale, quando vado a un concerto mi metto molto spesso dalla parte del pubblico e non ho mai troppo amato la musica per musicisti. In tal senso, alcune delle 7-10 produzioni originali del TJF sono state pensate per un pubblico molto vario. Ad esempio Fabrizio Bosso con Banda Osiris o Frankie hi-nrg mc con Aljazzeera».
In un post su Facebook in cui commentavi l’articolo di Jacopo Tomatis, scrivevi: “per me e Diego Borotti sarebbe essenziale avere un fondo specifico da destinare ad attività durante il corso dell'anno, non solo per i musicisti torinesi, italiani e stranieri, ma anche per gli operatori, che non dimentichiamo sono allo stesso livello dei musicisti perché promuovono musica. Ma non è così automatico convincere gli sponsor che sono abituati a dare soldi a manifestazioni di breve durata […]” . Perdonami l’ingenuità, ma quando fu annunciata la tua direzione e il “cambio di rotta” rispetto a prima, mi sembrava di avere capito (e che fosse stato annunciato) che le attività durante l’anno fossero un punto importante, per l’amministrazione e per il tuo progetto. Ora dalle tue parole non mi pare che questo aspetto sia definito, mi sbaglio? Quali sono gli obiettivi tuoi e dell’amministrazione in questo senso?
«Hai ragione, urge spiegare meglio: intanto dal budget TJF ne abbiamo accantonato uno piccolissimo per 3/4 attività che intendiamo fare tra settembre e dicembre in collaborazione con altri festival cittadini e non (Torino, Milano). Siamo stati soverchiati dal grosso lavoro del festival e non abbiamo ancora potuto annunciare quali saranno. A parte ciò, è da ottobre che dichiaro la volontà di fare una stagione di eventi durante il corso dell'anno, ora lo sta dichiarando anche l'Assessora, e quindi, subito dopo il festival è intenzione mia e di Diego di richiedere un nuovo anche piccolo budget da spalmare durante il corso dell'anno».
In continuità con la gestione Zenni, il Torino Jazz Festival è parte di I-Jazz, l’associazione dei Festival che è anche un pilastro della recente Federazione Il Jazz Italiano. Che tipo di idee, strategie e rapporti hai in mente di attivare?
«Non essendo nato come organizzatore, posso dirti, anche osservando l'esperienza di CHAMOISic, il festival che organizzo a Chamois dal 2010, che si va avanti per piccoli passi, e con TJF abbiamo appena iniziato. La prima cosa che mi viene in mente da discutere con colleghi di altri festival italiani, è lavorare all'esportabilità dei musicisti. Non è il massimo che i jazzisti di Roma suonino tendenzialmente a Roma, quelli di Milano a Milano, quelli di Torino, a Torino. Star a parte».
Ci sono Festival (o esperienze curatoriali) in Italia e in Europa, che trovi significative e che in qualche modo ti hanno ispirato?
«Nel passato, a Torino, Musica 90 e Settembre Musica diretta da Enzo Restagno, che ha portato un gruppo di Pigmei a Torino, Ligeti, Andriessen, e Kurtag, e li ha fatti suonare con musicisti eccellenti torinesi. Festival oggi: Punkt Festival (in Norvegia), Terraforma (Villa Arconati), Isole che Parlano (Palau, diretto da Paolo Angeli), ovviamente Time in Jazz (Berchidda) di Paolo Fresu (ho partecipato nel 1997 e ho visto un paese orgoglioso di appartenere al suo festival), e CHAMOISic, senza la cui esperienza non sarei stato chiamato al TJF».
Quest’anno il programma del Festival è stato annunciato con un mese di anticipo, una tempistica che chiaramente esclude una promozione specifica legata al turismo. È nei tuoi obiettivi, magari per il futuro, rivolgerti anche a potenziali spettatori che vengano apposta da altre città e nazioni?
«Sì certo, abbiamo lavorato a questa edizione zero da zero. Contiamo dalle prossime edizioni di annunciare prima il programma, e certamente sono ben conscio che la scelta delle produzioni originali renderà nei prossimi anni il TJF un festival unico a livello internazionale».
Un tuo desiderio segreto legato al Festival?
«Fare qualcosa di utile per la mia categoria (che comprende principalmente il pubblico che va a sentire i concerti), e quindi anche per me. Se poi diventasse un lavoro troppo faticoso, troppo burocratico o troppo legato alla politica o al potere, non ho problemi a tornare al mio vero lavoro, cioè quello di produrre musica. Ma sono molto ottimista: so che la comunità di cui faccio parte, e di cui posso essere mezzo tra operatori e istituzioni, può essere molto unita, se ben motivata e stimolata. Sento molto questo senso di responsabilità, e credo sia giusto non buttare via le cose buone che vengono fatte, come mi ha insegnato per anni Laura Strocchi, con cui faccio da anni CHAMOISic, e con il suo insegnamento conto di andare avanti».