Björk per amore dell'Utopia
Utopia è il nuovo album-mondo di Björk: dall’inferno patriarcale al paradiso del matriarcato
Elevando il proprio vissuto individuale ad archetipo dell’attuale condizione umana, Björk Guðmundsdóttir indica una via d’uscita dai traumi esistenziali e tratteggia i contorni dell’utopia cui ha consacrato il nuovo album. Onere imponente per un disco, ancorché ampio nello sviluppo – 14 brani in oltre 70 minuti di musica: mai prima si era spinta tanto in là – e ambizioso in termini di forma e concezione. Lo si deve valutare in relazione al precedente Vulnicura, largamente influenzato dalla separazione dolorosa dal compagno Matthew Barney: un “paradiso” opposto all’“inferno”, per usare le parole da lei spese in un’intervista concessa al “New York Times”, mentre l’opera diventa “una lettera d’amore all’entusiasmo e all’ottimismo”.
Scherzando, in estate, su “The Guardian” l’aveva definito “il mio disco Tinder”, nel senso di “esperienze fresche con nuove persone”. L’atmosfera d’incanto che avvolge l’iniziale “Arisen My Senses”, magica ballata in equilibrio fra tepore bucolico e algore digitale, comunica quella sensazione. E più ancora ciò accade nella successiva “Blissing Me”: squisito madrigale su arpeggio sintetico, dove i sentimenti viaggiano per mezzo di file mp3.
L’abbrivio è mozzafiato, insomma. E si comincia ad apprezzare la dialettica fra elementi naturali (l’orchestra di flauti sulla quale si fondano gli arrangiamenti, ma anche i campionamenti dei canti di uccelli registrati nel secolo scorso dall’ornitologo francese Jean-Claude Roché) e contenuto tecnologico, vero nucleo concettuale del lavoro. Essenziale, da quest’ultimo punto di vista, è il ruolo di Alejandro Ghersi, alias Arca: già coproduttore dell’album antecedente, nella circostanza ha operato in maniera letteralmente simbiotica con la protagonista (che lo considera “un musicista gigantesco” e ha descritto il processo come “una conversazione musicale transatlantica e transgenerazionale”) fin dalla fase di gestazione: valga da prova del nove l’immagine di copertina, firmata dal suo designer di fiducia, l’inglese Jesse Kanda. L’impronta dell’artista venezuelano è evidente nei frangenti dal carattere avant-garde: il claustrofobico habitat elettronico di “Sue Me” o le interferenze ritmiche che turbano la quiete barocca di “Courtship”. In questo contesto Björk tesse la trama narrativa della sua Utopia, “che non sta da un’altra parte, è qui”, afferma – tra fiati cameristici e rumori di foresta – nell’episodio omonimo. Subito dopo, nell’estesa – quasi dieci minuti – e a tratti ostica “Body Memory”, attribuisce al patriarcato l’aggettivo “kafkiano” e in “Tabula rasa” esorta a “non ripetere i pasticci dei padri”.
Finché, all’epilogo, chiamato programmaticamente “Future Forever” e animato da slancio trascendentale, invita con tono idilliaco a “comporre una cupola matriarcale”. Più di un semplice disco, un mondo: decida ciascuno se abitarlo oppure no.