Successo per la "prima" Butterfly

Chailly riporta alla Scala la versione 1904

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Giacomo Puccini
07 Dicembre 2016
Giustizia è fatta. Riccardo Chailly ha vinto alla grande la scommessa di aprire la stagione scaligera con la prima versione di Butterfly in due atti che nella sala del Piermarini il 17 febbraio del 1904 aveva subìto una completa disfatta. Il direttore ha fatto emergere sonorità aspre, stridori, durezze del tutto insolite nelle esecuzioni di Puccini. Una singolare lettura pietrosa, che ha potuto contare su un cast di alto livello. Nel ruolo della protagonista Maria José Siri, di sicura vocalità e con quel tanto di straniamento che non guasta, Annalisa Stroppa come brava e dolente Suzuki, un ottimo Bryan Hymel sempre a proprio agio nei panni di Pinkerton e Carlos Álvarez console assolutamente ideale nel fraseggio come nei gesti. Straordinaria l'orchestra che ha seguìto alla lettera la crudezza richiesta da Chailly, con assoluta trasparenza e vigore. A tanta studiata asperità non ha però coinciso la messa in scena, Alvis Hermanis ha inventato una casa giapponese a più piani, dove in alto calano o scorrono pannelli con quanto di più scontato offra la paesaggistica giapponese, dove agiscono fanciulle in kimoni colorati con gesti che evocano farfalle fantasmatiche. Più in alto appare lo zio Bonzo (Abramo Rosalen) a scomunicare la nipote, mentre a pianterreno si apre un giardino con fiori di pesco. Insomma delle elegantissime vetrine di assoluta ovvietà (non a caso Hermanis ne ha firmato sei alla Rinascente, riempiendole di personaggi in kimono e cuffie stereo in testa). Anche se questo contrasto alla fine non disturba troppo, anzi, si potrebbe giustificare la convenzionalità dell'allestimento come invito a svelare quanto di crudele si nasconde dietro quegli stucchevoli paraventi. La versione in due atti di Butterfly ha offerto alcune sorprese all'ascolto. Per esempio nel primo atto l'accostamento del vacuo stornello dello zio ubriacone con la violenta ingerenza dello zio maledicente, che riscatta in parte la melensaggine del macchiettismo dei parenti. E nel secondo atto il durissimo faccia faccia di Cio Cio San e Kate, non più mediato dal console, con l'americana che si presenta come "causa della vostra sciagura" e l'altra che si rifiuta di stringerle la mano, "Questo no". Mentre nel finale Pinkerton risulta ancora più vile, si defila frettolosamente dopo il terzetto cavandosela con un "Addio, mi passerà" senza le lungaggini dei sensi di colpa della seconda versione e l'aria da "chiagne e fotte" di "Addio fiorito asil". Purtroppo il regista ha tentato di riscattare il personaggio, lo ha fatto riapparire alla fine affranto sul cadavere di Cio Cio San, guastando così l'effetto della voce fuori scena, sognata dalla moglie morente. Il vero problema della prima versione rimane comunque l'accumulo di situazioni teatralmente vuote: il coro a bocca chiusa, il preludio del futuro atto terzo, il coro dei marinai, il breve altro preludio col gioioso tema pentatonico dei corni, fanno in tutto quasi venti minuti di musica dove non accade nulla. E mette a dura prova qualsiasi regista, Hermanis compreso, che non può far altro che mostrare altre fanciulle gesticolanti come bianche falene al primo piano della casa. Serata di gala, col Palco reale contornato di rami di pesco, ma senza il Presidente Mattarella che si è scusato, tramite una missiva letta dal sovrintendente Pereira prima dello spettacolo. Presente il sindaco e il presidente della regione, ma assente il ministro dei Beni Culturali Franceschini, anche lui impegnato a risolvere la crisi di governo tre le ore 18 e le 21. Un quarto d'ora di applausi e, vera rarità per la Scala, non una contestazione.

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