Verdi secondo Chailly

Giovanna d'Arco diretta da Chailly inaugura la stagione della Scala con Netrebko e Meli

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Giuseppe Verdi
07 Dicembre 2015
L'attacco dello scaligero 7 dicembre l'ha dato il sovrintendente Pereira, comparso in proscenio ad annunciare con una complicata sintassi la sostituzione dell'indisposto Carlos Álvarez col bravo Devid Cecconi (per altro già prevista da giorni). È forse per lasciar stemperare quella verbosa comunicazione di servizio che Riccardo Chailly si è fatto attendere a lungo prima si salire sul podio. Poi la vera sorpresa l'ha offerta lui. La sua affezione per "Giovanna d'Arco", che già diresse a Bologna nel 1989 per la regia di Werner Herzog, è stata immediatamente percepibile perché è riuscito a far affiorare in orchestra dettagli insospettabili, con una inedita leggerezza di sonorità. Tanto da far scoprire un Verdi raffinato orchestratore, impensabile in quel momento della sua carriera, sfatando così molti luoghi comuni e l'immeritata etichetta di "brutta" appioppata all'opera da Massimo Mila. Chailly ha avuto anche dalla sua due voci di primaria grandezza, Anna Netrebko come Giovanna e Francesco Meli come Carlo VII, entrambi sicurissimi in ogni momento. Entrambi di grande presenza scenica. Altrettanto inaspettato e ottimamente riuscito l'esito in palcoscenico. Tutto si svolge in una stanza o meglio nella testa di Giovanna. I registi Moshe Leiser e Patrice Caurier hanno fatto una scelta astuta, quella di attribuire la sgangherata vicenda alle fantasie di una ragazza di campagna un po' fuori di testa, sicché alla fine "tout se tient", altrimenti sarebbero sorti nodi drammaturgici difficilmente risolvibili. La camera da letto spoglia, inventata dallo scenografo Christian Fenouillat, potrebbe essere quella del finale di Traviata, quando Violetta vaneggia "È strano... Cessarono gli spasmi del dolore...", dove tutto può succedere. E così Giovanna ha modo di evocare i suoi fantasmi, che prendono forma da filmati di battaglie, dall'improvviso apparire in scena del re tutto d'oro, dei paesani o delle soldataglie. Bello l'effetto degli inglesi sconfitti che irrompono all'inizio del secondo atto, senza soluzione di continuità col terzetto, e l'affiorare della cattedrale di Reims prima dell'incoronazione. Al gioco della guerra si alternano le tentazioni d'amore, suggerite da rossi diavolacci dalle ali di pipistrello che assediano la Pulzella, facendo sospettare che a letto con l'amato Carlo ci sia proprio andata, come sosteneva malignamente Shakespeare nell'"Enrico VI". Questo confinare tutto nella fantasia della protagonista ha tuttavia come contropartita qualche perdita di epicità, che per quanto elementare è talvolta indispensabile. Come nel caso della "quercia sacra all'infernal convegno" che, per quanto commentata in orchestra, è ridotta a quattro parole che non riescono a evocare un'atmosfera da tregenda. Servirebbero lampi e nuvolacce nere. O come nella pubblica denuncia di stregoneria, col padre che se ne sta per conto suo in proscenio a cantare per il pubblico in sala, mentre l'accusata e il suo amato re compongono al centro della stanza un "tableau vivant" a sé stante. Al termine undici minuti di applausi per tutti e non la più piccola contestazione alla regia, una rarità per un'inaugurazione di stagione alla Scala. Né si è sentita durante l'unico intervallo alcuna rimostranza fra gli spettatori per aver dovuto fare la fila all'entrata, a causa delle misure di sicurezza. Che hanno anche comportato la presenza di ingenti forze dell'ordine nelle vie adiacenti il teatro e sulla piazza.

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