Un curioso gioco di sovrapposizioni storiche e drammaturgiche fa sì che assistere nel 2014 alla “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” crei un bel cortocircuito interpretativo: nata dalla penna d’epoca zarista di Nicolaj Leskov, va poi in scena (ben) dopo la rivoluzione, quando il potere di Stalin era, nel 1934, decisamente consolidato.
Ma questa noia da ricchi, scintilla da cui scaturisce l’intera azione, e la depravazione reale e metaforica che ne deriva non sono in fondo un macabro ritratto del moderno capitalismo a cui si è votata la Russia di oggi?
Certo, c’è molto di più, nella “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” di Šostakovič, dell’attacco alla deriva sociale impressa dal dominio di una classe sull’altra, eppure, inizialmente, la violenza del padrone ci appare cruda e priva di rimandi metaforici, a differenza di un impulso sessuale diffuso, ricco di connotati simbolici che rinviano a un tracollo morale che attraversa tutti gli strati sociali.
È a questo punto che la "Lady Macbeth del distretto di Mzensk" torna alle ispirazioni shakespeariane, trasfigurando tuttavia una delle incarnazioni del male per antonomasia in una vittima della solitudine e del bisogno d’amore, al punto da farne quasi un’eroina romantica.
Il Teatro Comunale di Bologna chiude la stagione in linea con un percorso alla ricerca dei repertori meno usuali, offrendo l’opportunità di un titolo inconsueto, e sfruttando al meglio la formula del “pacchetto”, al quale ha ben adattato la propria orchestra, ben diretta da Vladimir Ponkin, e il proprio coro, capace di una impegnativa prova attoriale a cui lo sottoponeva un allestimento dal ritmo sostenutissimo (e al quale è mancata talvolta una cifra più sobria) a sostegno di due efficaci interpreti come Elena Mikhailenko e Alexey Tikhomirov.