Un vascello senza mare
Der fliegende Holländer alla Scala si svolge in un ufficio
Recensione
classica
Addio Coleridge, addio Heine, scordiamoci l'aura romantica del pallido capitano condannato a vagare in mare per l'eternità. Nonostante l'ouverture ben diretta da Hartmunt Haenchen con l'orchestra scaligera in ottima serata (legni presenti e scanditi), evochi tempeste, arcani infernali, sogni d'amore, nonostante il libretto parli di attracchi perigliosi, di spiagge, di venti propizi per tornare a casa, non ci sono tracce del mare e del mistero in questa edizione del Der fliegende Holländer coprodotto con l'Opera di Zurigo e di Oslo. Se non in un quadro con onde che talvolta si animano o vengono solcate da un modellino di veliero. Tutto è rinchiuso in un ufficio di una compagnia marittima, dove campeggia un orologio con lancette velocissime e dove lavorano delle mezzemaniche che dovrebbero impersonare i marinai di Daland (il prestante Ain Anger), ma anche i compagni morti dell'Olandese (Bryn Terfel, autorevolissimo anche se la voce sente un poco gli anni) creando quindi una confusa commistura. Né al regista importa che le impiegate alle macchine per scrivere si ostinino a cantare di fili e rotelline tentando di far presente d'essere invece delle filatrici. Stando così le cose la povera Senta (la brava e bella Anja Kampe, la migliore del cast) alla fine non può gettarsi nel mare che non c'è e si spara col fucile di Erik (Klaus Florian Vogt). Addio quindi anche al ricongiungimento con l'amato attraverso la morte perché l'eroina stramazza in ufficio. A parte la pesantezza della regia, impaurita nell'affrontare una leggenda, c'è anche l'abbozzo di una storia parallela non di facile comprensione. Coi soldi dell'Olandese la compagnia marittima deve aver fatto fortuna in Africa, ma un tratto la grande carta geografica del continente prende fuoco e in scena compare un indigeno seminudo che uccide con le frecce gli impiegati colonizzatori. Mah... Gli unici momenti dello spettacolo non disturbati da interventi estranei al testo sono quelli dove compaiono Senta e l'Olandese da soli, lì c'è solo la musica di Wagner e la sua drammaturgia.
Alla fine grandi applausi per tutto il cast, segnatamente per Bryn Terfel e Anja Kampe, ma una insistita e perentoria bordata di buu per il regista. Un peccato che nell'anno wagneriano sia andato in scena un allestimento di così poco spessore.
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