Hotel Falstaff

Un'ottima edizione firmata Harding/Carsen apre le celebrazioni verdiane alla Scala

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Giuseppe Verdi
15 Gennaio 2013
L'incontro tra Daniel Harding e Robert Carsen ha fatto scoccare una felice scintilla nel Falstaff che ha aperto le celebrazioni verdiane alla Scala. Il, regista canadese ha ambientato la vicenda negli anni Cinquanta (espliciti nella cucina di formica gialla di casa Ford e nei costumi) e inventato una scatenata meccanica da commedia musicale. Col risultato che, quando per contrasto isola alcuni momeni con pause e luci raccolte, ottiene effetti drammaturgici indimenticabili: la meditazione di Falstaff sull'onore, l'amoreggiamento di Nannetta e Fenton, la disperazione di Ford-Fontana. In apertura c'è il protagonista a letto in una stanza d'albergo circondato da decine di tavolini del room service, con le pareti di boiserie presenti in tutta l'opera. Anche nella strepitosa scena di Falstaff che dopo il bagno nel Tamigi intrattiene un cavallo in carne e ossa, mentre sta mangiando il suo fieno, sulla ribalderia del mondo. In chiusura invece il "tutti gabbati" viene rivolto agli spettatori con le luci in sala, prima che i cantanti si mettano a banchettare. L'elegante kermesse è stata possibile anche grazie a due fuoriclasse come Ambrogio Maestri, Falstaff di gran classe e lunga esperienza (alla Scala lo fu nell'edizione Muti-Strehler di dieci anni fa) e Daniela Barcellona, una Quickly irresistibile per sgangherata eleganza e comicità, spiritosamente disinvolta pur con un'enorme pignatta floreale in testa. Il mezzosoprano è stato davvero una sorpresa in questa veste e senza dubbio la migliore interprete femminile del cast. Le sta al passo la Nannetta di Irina Lungu, mentre Alice di Carmen Giannattaso (che ha sostituito l'annunciata Barbara Frittoli) e Meg di Laura Polverelli sono ben dietro. Buone le altre voci maschili. Harding ha scelto tempi concitati, spesso fratti, coi nervi a fior di pelle stile Toscanini e questa verve ha trascinato bellamente l'orchestra. Che lo ha assecondato in ogni dettaglio, dalle sottili impennate d'arguzia sonora alle beffarde esplosioni. C'è solo da segnalare che l'acustica della Scala penalizza i pianissimo, che in certi passaggi erano talmente flebili da non arrivare quasi in sala. Servirebbe un poco più di volume perché gli strumenti non siano sovrastati dalle voci. Ottima l'accoglienza a fine spettacolo per tutti gli interpreti, massimamente per il direttore d'orchestra e i due mattatori della "reverenza".

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