I Vespri di Capaci
Torino: rilettura dichiaratamente politica del grand-opéra verdiano
Recensione
classica
Le celebrazioni per il 150° dell’unità d’Italia hanno sollevato un vespaio di riletture critiche, discorsi e confutazioni sulla storia e l’identità nazionale. Pare sia proprio l’idea generale di nazione che, una volta applicata a questo Paese, si frantuma come la luce in un prisma, per cui non è cosa facile trovare un terreno comune sul quale fondare un sano patriottismo, adatto per così dire all’occasione. Per commemorare la ricorrenza a Torino, prima capitale del Regno, non si poteva forse trovare un’opera più adatta dei Vespri siciliani: proprio per l’assenza di trionfalismo, per lo sguardo impietoso con cui Verdi cala il dramma di Scribe nella realtà di un popolo per il quale, nel 1282 come nel 1848 come sostanzialmente oggi, l’unico eroe assoluto è l’eroe morto.
Sotto la bacchetta di Gianandrea Noseda la vicenda musicale ha un abbrivio deciso, con tempi veloci, concertazione sempre limpida e a favore dei cantanti, tra i quali spicca, per intensità e aderenza alla parte, il Procida di Ildar Abdrazakov, che regala anche il momento più bello della serata con una perfetta “Oh patria, o cara patria” tra le carcasse di Capaci. La prestazione di Gregory Kunde, nei panni di Arrigo, è stata brillante ma a tratti meno omogenea, e un po’ sottotono sono apparsi anche gli altri protagonisti, Franco Vassallo (Monforte), e Maria Agresta (Elena).
Ma l’attesa era tutta per la regia di Davide Livermore, ambientata ai giorni nostri (sebbene le scene di Santi Centineo e i costumi di Giusi Giustino alludano piuttosto a una modernità simbolica, novecentesca in senso lato) e impostata in senso dichiaratamente politico. Si parla di fascismo mediatico, di attentati con le bombe in autostrada, di funerali di stato presenziati da notabili e mafiosi, di Parlamento ridotto a garçonniere.
Va riconosciuto a Livermore il coraggio di perseguire fino in fondo la sua idea d’impianto, anche laddove sarebbe bastato un piccolo compromesso, un minimo alleggerimento, per rendere meno urticanti certe scene e passaggi, come la tarantella delle giovani spose tra le macerie e l’immondizia, nel secondo atto. È una regia fondata non sulla novità delle idee, ma sulla loro forza archetipica, esaltata anche a costo di rendere oscuri certi snodi drammaturgici, e va presa o rifiutata in blocco, senza la pretesa di salvare i pezzi che funzionano meglio respingendo gli altri. La cosa interessante è che, alla fine, i Vespri reggono bene alla strapazzata, e lo spettacolo vola di atto in atto verso la fine in quattro agili orette, il che è una buona notizia per gli artisti, per gli spettatori e forse pure per l’amor di patria.
Interpreti: Sondra Radvanovsky/Maria Agresta, Gregory Kunde, Franco Vassallo, Ildar Abdrazakov
Regia: Davide Livermore
Scene: Santi Centineo
Costumi: Giusi Giustino
Orchestra: Orchestyra del Teatro Regio di Torino
Direttore: Gianandrea Noseda
Coro: Coro del Teatro Regio di Torino
Maestro Coro: Claudio Fenoglio
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